Come abbiamo commentato nel nostro rapporto del 2022, le annate a Napa sembrano essere sempre più definite da condizioni estreme. La vendemmia 2023, tuttavia, è stata – come l’ha descritta Neil Bernardi MW, COO di Colgin – “notevolmente non notevole”.
 “È stata un’annata calma e controllata”, ha detto la produttrice Cathy Corison, che vinifica con la sua etichetta eponima dal 1987. “Non c’è stato nulla che ti costringesse a intervenire. Non faceva né troppo freddo, né troppo caldo, né pioveva. Abbiamo avuto il lusso del tempo.” Per la Corison, è stata un’annata esemplare, facilmente una delle sue preferite – anche se non è ancora pronta a dichiararla la migliore della sua carriera (almeno per ora). E non è la sola: in tutta la valle, si sono moltiplicate le voci entusiaste, con molti che considerano la 2023 una delle migliori annate della storia recente. Il clima dell’anno è stato insolitamente fresco a tratti, ma nel complesso senza eventi significativi. Guardando ai mesi precedenti la stagione vegetativa, tuttavia, la California settentrionale ha ricevuto livelli di pioggia storici. Con un clima mediterraneo classico, le regioni vinicole della California vivono estati calde e secche, e la maggior parte delle piogge cade tra ottobre e aprile. Negli anni di siccità del 2020 e 2021, Napa ha ricevuto appena 8 e 10 pollici di pioggia rispettivamente. L’annata 2022 ha portato un sollievo tanto atteso, con 26 pollici di pioggia misurati a Oakville – praticamente nella media rispetto agli ultimi 10 anni. I record sono stati però infranti nel 2023, con un incredibile totale di 58 pollici di pioggia registrati tra la fine del 2022 e l’inizio della vendemmia 2023. I bacini locali si sono riempiti fino a traboccare e molti vigneti nelle aree più basse sono rimasti sott’acqua durante l’inverno. Le piogge sono proseguite fino a maggio, intervallate da fitte nebbie e, con i suoli saturi e cieli coperti, il germogliamento è stato ritardato di circa due settimane. Sebbene la maggior parte dei produttori sul fondovalle abbia riportato un’ottima allegagione e carichi d’uva superiori alla media, non è stato così ovunque. Sulla Spring Mountain, presso la Philip Togni Vineyard, la vinificatrice Lisa Togni ha spiegato che le tempeste arrivano prima in questa zona, dove le nubi si soffermano più a lungo. Umidità e vento possono ostacolare l’impollinazione, riducendo il numero di acini per grappolo. Le rese, pur non essendo storicamente basse, sono state comunque inferiori alla media nel 2023. Al contrario, Sam Kaplan, enologo di Arkenstone e Memento Mori, ha riferito di aver dovuto diradare “in modo aggressivo” durante la stagione di crescita, a causa di rese potenziali più alte del normale e grappoli grandi e perfettamente formati. Le temperature primaverili sono state più fresche della media, una tendenza che è proseguita per tutta l’estate. A giugno e luglio, le temperature non hanno mai superato i 32°C – fatto altamente insolito rispetto a ogni annata dell’ultimo decennio. Ad agosto le temperature sono salite leggermente, ma senza eventi di caldo estremo. “Le cose peggiori possono accadere nella prima settimana di settembre”, ha osservato l’enologo e viticoltore Steve Matthiasson. La maggior parte dei produttori di Napa trattiene il respiro durante il weekend del Labor Day, ormai tristemente noto per ondate di calore e incendi. Nel 2023, però, il maltempo non si è manifestato. Temperature moderate, leggermente inferiori alla media, sono persistite per tutto settembre, e le uve sono rimaste a lungo sulla vite, accumulando lentamente zuccheri e aromi. Per molti produttori, la sfida più grande del 2023 è stata la pazienza. Dopo gli improvvisi picchi di calore degli ultimi anni, la Togni era pronta per la vendemmia già il 15 agosto. Due volte ha fissato le date di raccolta, solo per annullarle all’ultimo momento, quando nuove analisi mostravano che la maturazione non era ancora ideale. La vendemmia è infine iniziata alla Philip Togni Vineyard il 2 ottobre – una grande differenza rispetto al 2022, quando era cominciata il 23 agosto. Con il progredire della stagione di raccolta e le temperature ancora stabili, la possibilità di pioggia diventava una preoccupazione, dato che l’uva sarebbe rimasta a maturare fino a metà ottobre o oltre, a seconda del sito. Anche questa volta, però, la pioggia non è arrivata. “È stato tutto perfetto”, ha dichiarato Mike Smith, enologo di Myriad, notando che, sebbene le condizioni del 2023 fossero insolite rispetto alla storia recente, in molti modi rappresentavano un ritorno a una normalità più antica. “Nessuno sotto i quarant’anni ha probabilmente mai visto un’annata così,” ha detto. “Sono più abituati a caldo e siccità.” Smith ha iniziato la raccolta per Myriad il 5 ottobre, circa tre settimane più tardi rispetto alle annate recenti. Si chiede, tuttavia, se altri produttori non abbiano iniziato troppo presto – un dubbio condiviso da Kaplan, che ha notato una mancanza di densità al centro del palato in alcuni vini, forse frutto di decisioni prese seguendo troppo il calendario, viste le tendenze recenti. In alcune tenute la raccolta era ancora in corso ai primi di novembre. Da Colgin, Bernardi ha dichiarato che la loro pazienza è stata premiata: “Quando abbiamo vendemmiato, sentivamo che ogni vite era al massimo di ciò che poteva dare. L’allineamento tra zuccheri e composti fenolici era fenomenale.” Ha aggiunto che, dopo la raccolta, le foglie sono subito ingiallite, segno che la vite aveva completato il ciclo vegetativo. Non ci sono state preoccupazioni per le rese – l’abbondante acqua e la stagione fresca non le hanno ridotte, e la maggior parte dei produttori ha riportato quantità superiori alla media, soprattutto sul fondovalle. La qualità dell’uva è stata uniformemente eccellente, con acidità naturali e tannini abbondanti. Smith ha elogiato il colore e la densità dei 2023, sottolineando che l’estrazione è stata rapida e la fermentazione regolare. Kaplan ha invece dovuto prestare attenzione a mantenere corpo e struttura nei vini, gestendo le fermentazioni per bilanciare frutto e tannino. Molti produttori hanno anche lodato il profilo aromatico dei 2023. In annate più calde, come la 2022, molte note delicate tendono a svanire, ha spiegato Tony Biagi, enologo di Patria e Hourglass. Nel 2023, la combinazione di frutti rossi e neri, insieme a note floreali, ha dato vita a vini altamente profumati. Secondo Biagi, i 2023 offrono “potenza e finezza spettacolari”, con tutto ciò che serve per essere “un’annata superlativa” – vini capaci di invecchiare per almeno 30 anni. Ciò che potrebbe distinguere i vini del 2023 è l’alto livello di “finesse ed eleganza”, come ha descritto Andy Erickson di Favia. Pur ritenendo che il 2023 non sia la più “californiana” delle annate – almeno secondo gli standard moderni – i vini mostrano una qualità snella e aggraziata al palato, bilanciando potenza e grazia. Bernardi ha elogiato la “sensazione di leggerezza” dei vini di Colgin, qualcosa che, secondo lui, solo le annate più grandi riescono a esprimere. Confrontare il 2023 con altre annate risulta difficile. Più di uno, tra cui Matthiasson, ha detto che la stagione di crescita ricordava quella del 2011 – ma senza le piogge di ottobre che complicarono la raccolta di quell’anno. Lisa Togni ritiene che il 2023 sia un’annata classica di Napa, con condizioni moderate, che sembrano fresche solo in confronto alle annate torride più recenti. Kaplan paragona la purezza del frutto del 2023 a quella del 2018, ma ancora più evidente. “I vini saltano fuori dal bicchiere,” ha detto, “sono così profumati e aromatici.” Per Corison, l’altissimo livello qualitativo del 2023 ricorda il 2001, un’altra annata elegante che continua a evolversi con grazia. Ma il 2023 è davvero “l’annata del secolo”, come si mormora? Nel complesso, la qualità è molto alta. Dopo aver degustato decine di campioni da botte, è chiaro che nel 2023 era probabilmente più difficile fare un vino cattivo che uno buono.
 Anche se l’attenzione è già rivolta al 2023, diversi produttori hanno espresso dispiacere per la rapida svalutazione di altre annate, spesso trascurate per eccesso di semplificazione. La Wineburg di Quintessa ritiene che il 2023 sia senza dubbio un’ottima annata, ma che anche il 2022 lo fosse – ciascun anno ha la propria personalità e potrà attrarre palati diversi. Per Erickson, i vini nascenti del 2024 (un’annata che lo entusiasma particolarmente) saranno più tipicamente californiani, densi e potenti, mentre il 2023 sarà ricordato per la sua finezza e compostezza. Il 2023 è un’annata eccezionale – e i vini conquisteranno soprattutto chi ama uno stile classico. Grazie alla stagione lunga e fresca, molti – se non la maggior parte – dei vini mostrano una qualità bordolese, unendo il frutto puro californiano a freschezza, acidità e un corpo elegante e agile, con “una sensazione di leggerezza” come ha detto Bernardi. I tannini sembrano destinati a integrarsi perfettamente, e c’è una certa sobrietà nei vini che ricorda la Napa di un tempo. La qualità è molto più omogenea – in senso positivo – rispetto alle annate recenti più difficili, dove le differenze di terroir e di decisioni tempestive accentuavano il divario tra chi falliva e chi eccelleva. “Abbiamo visto così tante difficoltà,” ha detto Togni, riferendosi alle sfide del 2020 e 2022, “ma questa è stata una bella conferma che non tutti gli anni saranno difficili: il 2023 è stato un’annata classica, magnifica – un’annata da libro di fiabe.” Napa 2023: l’annata in sintesi Forti piogge invernali e primaverili hanno rifornito le riserve idriche, con una lunga stagione di crescita e una vendemmia tardiva Rese generalmente superiori alla media, soprattutto sul fondovalle Qualità ampiamente coerente in tutta la regione Stagione fresca con maturazione prolungata, che ha prodotto vini eleganti e raffinati Vini dal profilo aromatico intenso, acidità fresca e tannini fini, in uno stile classico che richiama la Napa di un tempo Un’annata eccezionale – una delle migliori, se non la migliore, della storia recente Tenete d’occhio le prime uscite dell’annata 2023 di Napa. Nel frattempo, leggete di più sulla California o esplorate tutte le attuali offerte di Napa.

Da quando l'uva è arrivata in cantina, i viticoltori di Napa hanno nutrito una certa fiducia per l'annata 2023, con voci di grandezza. Ora, con l'uscita dei primi vini dell'anno, scopriamo se l'annata è davvero buona come suggeriscono le voci.

Is 2023 the vintage of the century in Napa? We talk to Corison, Colgin, Arkenstone, Tony Biagi, Steve Matthiasson and more about the year and its wines 

Discover the wines of the 2023 vintage in Napa, California 

Napa 2023: resoconto dell'annata  

Alphonse Gros was the first in his family to settle in Vosne-Romanée, in 1830, and purchased the monopole Clos des Réas, still worked by the family today. His son Louis-Gustave took over the business and bought more vineyards. He married and – by the mid-19th century – the wines were bottled under their combined name, as Domaine Gros-Guenaud. In 1882, he purchased two hectares of Richebourg – vineyard land that remains under the Gros family today. Louis-Gustave’s son, Jules Gros, inherited the business from his father and, similarly to his father, labelled the wines under his and his wife’s name, as Domaine Gros-Renaudot. In 1920, he purchased two parcels of Clos Vougeot, later adding Les Grands Echezeaux and three hectares of Echézeaux, in the lieu-dit Les Loächausses.  Louis Gros, Jules’s son, took over in due course, and bottled wines under Domaine Louis Gros and later Domaine Louis Gros & Fils. He passed away in 1951, leaving four children: Jean, François, Gustave and Colette, who continued running the family estate until 1963, when they divvied up the property.  Gustave and Colette joined their shares together to create Domaine Gros Frère & Soeur.  Jean and François worked together, making wine under the name Gros Père & Fils, but divided their holdings in the early 1970s. Jean established his own estate, Domaine Jean Gros.  François continued to produce wine under the Gros Père & Fils label (négoce bottlings), but also under Domaine François Gros. In 1978, he stopped bottling wine due to health problems, and for a decade all the wine was sold to a négociant, with both the domaine or négoce ceasing production. Despite previously studying the arts, his daughter Anne Gros shifted too winemaking and revived the family domaine in 1988, under the name Domaine Anne & François Gros, changing this to Domaine Anne Gros in 1995.  Jean had three children: Bernard, Michel and Anne-Françoise. Bernard Gros took over Domaine Gros Frère & Soeur, while Michel Gros starting making wine under his own name at Domaine Michel Gros. Anne-Françoise established Domaine A.-F. Gros (she later married François Parent of Pommard, who brought family vines with him to the operation). The next generation is now taking over, and even setting up their own estates – with Anne Gros’s son Paul Tollot-Gros having made his first handful of vintages under his own name.    The Gros estates today  Domaine Gros Frère & Soeur: Bernard Gros has now handed the running of this domaine over to his son, Vincent Gros.  Domaine Michel Gros: Michel Gros is still at the helm of this estate, although his son Pierre is now working alongside his father.  Domaine A.-F. Gros: This estate, with a large winery in Beaune as well as a property in Pommard, is now run by brother-and-sister Caroline and Mathias Parent, with Caroline in charge of the commercial side of the business and Mathias running the vineyards and winery.  Domaine Anne Gros: Anne Gros is still in charge at the estate, but her children – Julie, Paul and Marine – are all involved. Paul has now also set up his own label (see below). She also has a project in the Minervois, under the name Jean-Paul Tollot & Anne Gros  Paul Tollot-Gros: Anne Gros’s son, Paul Tollot-Gros, set up his own label as of the 2022 vintage.   

There are several different Gros estates in Burgundy – but how are they all related? Here, we dive into their vinous dynasty

There are many different Gros estates in Burgundy – but how are they related? We dive into Gros Frere & Soeur, Michel Gros, Anne Gros, A-F Gros and more

The Gros family domaines in Burgundy 

Untangling the Gros family’s estates in Burgundy

One name that kept cropping up when speaking to winemakers about wine and cheese pairing was Bernard Antony, a man who now supplies 20 of the world’s 3* Michelin chefs as well as working alongside many of the world’s top winemakers matching cheese and wine at events for Guigal, Angelus, Humbrecht and many more.   We caught up with Jean Francois Antony (Bernard's son and protege) to find out more about Affinage (the ageing of cheese) and their perfect cheese and wine pairings. 45 years at the service of taste Bernard Antony is one of the world’s great cheese makers. Strictly speaking, his mastery
is in affinage, that is finishing and ageing cheeses. From humble beginnings working as a travelling grocer in Alsace, in 45 years he has gone on to become one of the most recognised men in the world of fine cheese.  Bernard Antony was the protegé of the late great Maitre Pierre Androucet – known as “the Pope of Cheese”. Bernard says of Pierre: "To me, he was like a father. He was the man who created me, who taught us everything, to my wife and me. He didn't like me to say it because he wanted to give me all the credit for my success”.  Following on from Androucet’s advice and support, Bernard set up his own cheese ageing cellars in the early eighties in the southern Alsace village of Vieux-Ferrette. The ageing cellars are made up of seven different chambers all at different humidity and temperature levels – ideal for raising and ageing various different styles of cheese. Only when the cheeses are deemed ready and at perfect ripening are they released to the markets and delivered to restaurants. Ageing of cheeses can range from just a few months for the fresher goat’s cheeses to several years for some hard cheeses. Speaking with Jean Francois Antony, Bernard’s son, who works alongside his father, running the day-to-day operations of the cellars, he identifies that the skills in good affinage revolve around a number of key elements. First of all, “raw (unpasteurized milk) is essential if one is to speak of cheese with authenticity…taking into account the breed of animal, the animal's diet, the talent of the cheesemaker and then of course the controlled process of ripening are also key”. The cheeses arrive at the cellars already halfway through ripening and their ageing cellars go into action to give them the final touch. They provide the perfect environment and temperature for ageing as well as the most important element in the Bernard Antony cheese cellars, the natural yeasts that live there helping the cheese mature distinctly and in the best way possible. The famous ageing cellars are open for visits in the village of Vieux-Ferrette. If you are travelling through Alsace it is an essential visit. Book via their
website. They often pair the cheeses with fine wine so we thought who better to ask for advice on the ultimate cheese and wine pairings than the man himself.  Below is the Bernard and Jean Francois Antony’s essential guide to food and wine matching, split up between the different styles of cheese, with additional advice passed down from Pierre Androucet.  The Floury crust family of cheeses Camembert        Brie de Meux (un peu sale)         St Marcellin and St Marcellin (runny)     Petit Mosellan         Coulommiers         Chaource
 The classic pairing would be Champagne (Blanc de Blancs, Aged and even Rose Champagne) however Bernard Antony advises that you remove the crust as it can make the wine appear more harsh. The bubbles work brilliantly in refreshing the palate from these rich cheeses and the yeast flavours from the Champagne also work really well. Avoid tannic reds with these cheeses. One of Bernard's favourite matches include a Gevrey Chambertin 2012 from Domaine Denis Mortet with the St Marcellin. He states a white wine with both gentle oxidation and good acidity works particularly well with Petit Mosella (Saint Peray from
Domaine Tunnel or Alain Voge) or a fruity red wine with well-coated tannins such as a Beaujolais Cru wines with the Chaource and Colombier fermier. The Washed Crust family of cheeses Epoisses       Langres         Livarot     Munster  Maroilles    Vacherin         Pont-l’Eveque According to Androuet: robust and virile wines, with sap and generous bouquet work best with these potent washed crust cheeses. They require “solar wines“ which can harness the power of washed crusts. Gewurtztraminer Grand Cru from Albert Mann, Chambolle Musigny from Liger Belair would both work well. Pinot Noir from Zind Humbrecht, Bollinger 2008 Grande Annee also a particular favourites with Bernard Antony. The pressed crust family of cheeses Comte     Emmenthal        Beaufort         Gruyere Suisse According to Androuet the matches depend on the evolution of the cheese. Dry white or red wines with bouquet work well, red wine brings a balancing touch of bitterness. These cheeses flatter any red wine by erasing astringency and promoting fruit therefore making White or Red Burgundy a good match. With more ageing of the cheese, wines from the greater South-West, the Rhône Valley and Languedoc Roussillon become better matches. Other personal
favourites from Bernard Antony include Vernaccia di San Gimignano (Italy) White
wines from Valais (Switzerland), and Savignin wines from the Jura. The pressed (uncooked) crust family of cheeses Morbier   Tomme de Savoie fermiere       Mimolette demi étuvé         Salers     Roblochon  Sainte Nectaire Pairing again depends on the maturity of the cheese. The older the cheese the richer the wine. Chateau Latour 2001 is Bernard’s match with Morbier. Saint Joseph Pierre Gonon 2013 works well with Reblochon and Chateau Canon La Gaffeliere Grand Cru Classe St Emilion 2008 works well with Saint Nectaire. The family of blue cheeses Bleu d’Auvergne     Roquefort        Fourme d’Ambert      Blue de Gex          Stilton    Gorgonzola These are best paired with sweeter fruited wine or sweet wines. Avoid red wines as the mould changes the structure, the aromas and brings out the bitterness. Top picks are Rivesaltes Vins Doux Naturels, Pacharenc du Vic Bilh or aged Sauternes even red Vins Doux Naturels such as Maury, Banyuls work well with blue cheeses. The family of Goat and sheep cheeses Ossau-iraty         Brebis cremeux et parfume Brebis Corse     Chevre Frais    Chevre Moelleux et onctueux   Chevre Affiné. Vieux et sec   St Maure de Touraine Banon de Provence Chevrotin des Aravis With this family of cheeses the wine must tame the acidity of milk. The wine must work with the texture of the fat and complexity of the flavours. Androuet confirms the well-known phrase – match local wines with cheese of the same origin, particularly very dry and fruity whites. Dry white wines from the Loire – include the smoky Pouilly Fume, Sancerre, Menetou-Salon, Quincy and Reuilly work well with the goats cheeses from the region. From Burgundy, try the lighter Aligoté, Saint-Véran, Macon villages and from the Alpine pastures the white wines of Savoie or lighter reds of the Loire – Bourgueil and Chinon. Bernard Antony’s particular favourites with these cheeses include wines closer to home including Riesling Vendange Tardive 2007 from Barmes Buecher, 2002 Brundlmayer Gruner Veltliner Kaferberg 2002 and Pinot Gris Grand Cru Osterberg 2016, Domaine Agape. Read more Editorial 

Eating cheese and drinking fine wine is one of life’s little pleasures. We explore the art of ageing cheese (Affinage) and the perfect wine pairings

Find out more about affinage (the ageing of cheese) and the perfect cheese and fine wine pairings, with cheese guru Bernard Antony 

Pairing cheese and fine wine

The alchemy of affinage with cheese guru Bernard Antony 

Ogni novembre, il mondo del vino guarda alla Borgogna per l'asta degli Hospices de Beaune. Ci immergiamo nella storia di questa istituzione filantropica, della tenuta e dei vini che produce.

Explore the history of Burgundy’s Hotel-Dieu and Hospices de Beaune, its wine estate and the famous annual auction, the Vente des Vins

Your guide to the wines of the Hospices de Beaune

Tutto quello che c'è da sapere sugli Hospices de Beaune

Burgundy expert Jasper Morris MW has had his finger on the region’s wine pulse for several decades. Especially for FONDATA, he profiles eight domaines to watch, producers that are bringing vital energy and fresh winemaking talent to the celebrated wine region 

Jasper Morris MW on eight of Burgundy’s most exciting domaines – including Eleni & Edouard Vocoret, Chantereves, Alvina Pernot and more 

The new Burgundians – Jasper Morris MW 

The new Burgundians

Our team spent several weeks exploring the 2023 vintage in Burgundy – visiting, tasting and talking to a range of producers up and down the Côte d’Or. Here, we offer a run-down of the year by producer, from north to south, reporting on how each fared and our pick of their range this year

A run-down of the Burgundy 2023 vintage wines en primeur by producer: from Fourrier to Lafon via Bernstein, Lamarche, Lambrays, Duroche and Hudelot-Noellat 

Burgundy 2023 vintage by producer 

Burgundy 2023: by producer

Peat in whisky is divisive – both in terms of its intense flavour profile, but also its sustainability. It has long been used in Scotch whisky, adding complexity to the region’s spirits, but has – over the last two decades – been thrust into the limelight.  Essentially, peat is baby coal – decomposed organic matter, in particular sphagnum moss, that takes thousands of years to form. Historically, these peatlands – wetlands such as bogs and fens – were used for fuel, especially where other energy sources weren’t readily available. Slabs of peat, cut out of the ground and left to dry, were burnt, valued for their ability to (like coal) smoulder steadily. Peat would have originally been used to heat pot stills, giving off intensely scented smoke that distillers eventually looked to capture.  Today, energy sources are largely more sustainable, and peat is used in significantly smaller volumes in the kilning process. After the barley has been malted, it is kilned (essentially dried). For peated whiskies, this is done (at least in part) over a peat-fed fire, so that the barley picks up the flavours from the smoke. This barley is then milled, mashed, fermented and distilled to produce the whisky, with the peat smoke lending flavours that range from soot, smoke and asphalt to seaweed and iodine.   Peatlands have been put in the spotlight with climate change, given their incredible capacity to hold carbon – and release it. As a NatureScot report (2023) states, “Although peatlands cover less than 3% of the world’s surface, it is estimated that they store double the amount of carbon held in global forest biomass and more than 30% of the total global soil carbon store (Bonn et al., 2016). Peatlands make up some 9.5% of the UK’s land area with an estimated carbon store of over 3,200 million tonnes, of which 1,600 million tonnes are estimated to be in Scotland (Bonn et al., 2016).” But while they have an impressive ability to lock away carbon, once peatlands are damaged they release some of that carbon – and the same report estimates that degraded peatlands account for circa 13% of Scotland’s carbon emissions. (It’s worth noting that the same institution – then known as Scottish National Heritage – came under fire in 2020 for its agreement with Diageo, allowing for unlimited peat extraction on Islay.)  Peat accumulates at a mere 1mm a year, so it’s easy to see why peat extraction is a hot topic. Protecting and restoring Scotland’s peatlands are firmly on the national agenda, and in 2020, the Scottish government announced £20 million earmarked for restoration, with a commitment to invest more than £250 million by 2030. Unsurprisingly, it’s put Scotch whisky’s use of peat under the magnifying glass. In reality, a fraction (just 1%) of Scotland’s peat goes to the spirits industry – with horticulture the main culprit.  As Bruichladdich’s Head Distiller Adam Hannett says, however, it has provided “a great lens to look at what we’re doing with peatlands”. For him, “It’s about responsible extraction.” Bruichladdich’s production director is also looking at restoration projects with local farmers. In 2021, two giants of the industry announced significant projects – one from Diageo’s Johnnie Walker, partnering with the RSPB to repair wetlands, and a more ambitious pledge from Beam Suntory, with its Peatland Water Sanctuary Initiative. The project aims to restore twice the volume that the company harvests for use in whisky production, with $4 million invested by 2040. Some producers – such as Nc’nean – have sworn off peat totally, while others are moderating usage, or looking for alternatives.   In Sweden – where peatlands represent up to 20% of the entire land area, Mackmyra’s Blender Lii Johnson explains how there is strict regulation around their usage. They are one of a growing number of producers looking to use peat as another way to explore their terroir. As few producers malt and kiln their own barley today, often this is shipped from Scotland (in turn adding to distilleries’ carbon footprints). At Mackmyra, they instead use Karinmossen – local peat, harvested around 40km south of the distillery – seasoned with juniper twigs. She estimates they use a mere 0.1% of the peat bog, bringing in around 30 cubic metres per year.  Johnson feels that it is the juniper in the Karinmossen, along with the small twigs they add (picked from the woods around the distillery), which give a light citrus, almost medicinal note to their peated malts. In Seattle, Westland has pioneered using local peat, and a process with a backhoe to keep the bog intact and limit their carbon footprint. Co-Founder and Managing Director Matthew Hofmann feels the local peat brings Mezcal-like aromas to their peated whisky, Solum.   This quest for sustainability, combined with emphasis on the concept of terroir in whisky, has had interesting results at distilleries around the world. In Minnesota, Brother Justus sources peat from the Boreal Forest and has trademarked a cold-peating process to produce more delicate aromas. Tasmanian distillery Lark looks to Browns Marsh for its peat (around one cubic metre a year) and has had the International Mire Conservation Group confirm that it is having zero impact on the marsh. Others are looking to use alternatives – New Zealand’s Thomson Whisky uses manuka, while Archie Rose has looked to Australian hardwoods and, perhaps most distinctively, Iceland’s Eimverk sources sheep dung from local farms in lieu of peat.  As we’ve touched on, however, it’s not just what is used to peat malt – but how it’s used, that impacts the flavour of the final whisky. “Duration, in my opinion, is the key,” says Mackmyra’s Johnson, emphasising that it is how long the barley spends in contact with the peat smoke that influences the level of peatiness, while it is only the type of peat (or peat alternative) that will effect the nature of the peat flavour. She explains how whether the barley is peated pre- or post-break is also important: it’s most common to do pre-break, as if it is done post-break, when the barley is largely dry on the surface, it doesn’t pick up phenols – the compounds that produce peat’s smoky flavours. For Mackmyra’s peated barley, it is kilned for one day with peat and then for a second day just with hot air.  There are other factors too however – with fermentation times and cuts often a focus. While longer ferments are generally thought to engender complexity, shorter ferments preserve phenols. There are three factions to a still run – the foreshots, heart and feints. The foreshots and feints, the liquid that runs off first and last, are generally discarded, and the cuts between these determine the character of the heart. Phenols generally come late in the distillation process, so later cuts can be preferential when looking for peat character. For Mackmyra’s Extra Rok 2.0 – an extra-peated malt, they do shorter ferments and a later cut, to preserve the phenols.   It's become fashionable to talk about “ppm” in peated whisky – parts per million (perhaps familiar to wine lovers as the same term that is used for sulphur levels), to measure the level of total phenolic compounds. It’s perhaps unsurprising that the compounds are the same as those for smoke taint, including guaiacol and 4-methylguaiacol, for example, but while in the world of wine these are avoided, distillers of peated whiskies have competed to produce the spirit with the highest. This race to make the peatiest whisky possible was arguably inspired by Compass Box’s Peat Monster (first produced in 2003), building to and culminating with Bruichladdich’s Octomore 8.3 (released in 2017) – a whisky with a remarkable 309ppm, the highest level measured to date (compare this to the first Octomore release which had 131ppm). In this frenzied period, Ardbeg’s Dr Bill Lumsden even buried a barrel of peated whisky in a peat bog (which was released as an NFT in 2022, Ardbeg Fon Fhòid). But while one number is an easy way for whisky drinkers to grasp how peaty a spirit is, not everyone believes it’s helpful.  “We don’t like to talk about those numbers,” says Johnson. She explains how ppms are somewhat farcical, in her view. When the reading is taken varies from distillery to distillery, and therefore provides something that is almost impossible to compare. While most are taken at the mashbill stage, if you are later blending, it’s an estimate at best. Not only that, but the make-up of the phenolic compounds will influence how peaty one 100ppm whisky is versus another 100ppm whisky. For Mackmyra, their pure peated malt sits at around 300ppm, but the mashbill for their peated and extra peated whiskies are respectively around 70 and 140ppm, Johnson reluctantly tells me. The level of phenols can also vary significantly between batches of barley – and at Mackmyra they aim to combat this by doing one kilning a year, distilling all their peated whisky at once and blending the batches to create a consistent product.  It's almost for this exact reason that Bruichladdich created Octomore, Head Distiller Adam Hannett explains. The project’s numbered releases have significantly different levels of peatiness, and were a project inspired by their curiosity to see how far they could push the peat level, as well as their partnership with Bairds maltings, who had batches of barley with irregular phenol numbers.   Although peat is intrinsically associated with Islay’s malts, things aren’t as clear-cut today – and as Hannett says, “You can’t categorise flavour by region”. Islay-based Bruichladdich produces both peated and unpeated whiskies. Originally the distillery made heavily peated malts, switching to unpeated styles in the 1960s, and today makes both. Its Port Charlotte brand was first conceived to capture what Bruichladdich would have been like in the old days, as a heavily peated malt. Intriguingly, Bruichladdich briefly tried using Islay peat, however found that they couldn’t get the phenol levels as high. Hannett highlights that another element in phenol levels is the depth the peat is cut from – with lower levels having more vegetation and therefore more phenols.  For Bruichladdich, when they’re looking for an overtly peated spirit, the quality of the underlying spirit is key – working with the right barley and fermentation times, for example. While peated malts might be thought of as heavy, oily and medicinal, they try to avoid this character. He deliberately won’t delay making a cut in the name of phenols, with that decision based on quality – and the result, he feels, is that, “The essence of the peat smoke is light – it’s barbecued.” For him, it’s about the balance between the peat character and everything else.  For blending specialists, House of Hazelwood, peated whisky “is a tool in our arsenal we can use to build a complex blend”, says Eilidh Muir from their Whisky Blending Team. She emphasises that using peat doesn’t necessarily equate to a smoky whisky, but can contribute something to a blend that is much harder to pin down – but something you’d notice if it wasn’t there. “A whisky dominated by a single flavour is often too one-dimensional,” she says – they too are looking for that fine balance.  Peat is just one element that can be used to shape a spirit – and there remains a certain amount of mystery to its influence. The sustainability question isn’t going away, but – as Bruichladdich’s Hannett says, “I don’t know what the solution is at the moment… but we’re looking for one.” As producers look for an answer, they’re pushing boundaries – experimenting with local sources and alternatives – something that will only benefit whisky-lovers, and the environment.  Browse a range of peated whisky or read more about spirits 

Iodine, seaweed, soot and smoke: for some, peat’s trademark tasting notes are off-putting, for others they’re the pinnacle of fine whisky. Sophie Thorpe spoke to Bruichladdich, House of Hazelwood and Mackmyra about peat, ppms, its potential sustainability problem, and how it’s being used today

Bruichladdich, House of Hazelwood and Mackmyra on peat – how it’s used, whether it’s sustainable and the alternatives being employed in whisky today

How whisky distillers are using peat today

The big smoke: peat and whisky

Burgundy is a mecca for lovers of fine Chardonnay and Pinot Noir, but, with its litany of producers and vineyards, it can be a tricky region to get to grips with. Here we offer an essential guide to the region – breaking down everything from how vineyards are classified to producers to look out for

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