Caprifoglio, pesca, gelsomino. Maturo, profumato ed esotico, viscoso e inebriante – ma, al suo meglio, con una linea minerale e salina e una presa fenolica che tengono a bada il suo edonismo. Il Condrieu è un vino come nessun altro – e che non potrebbe essere molto meno alla moda, anche volendo. 
 Eppure, le sue migliori bottiglie sono incredibilmente difficili da trovare. Coteau de Vernon di Georges Vernay o La Doriane di Guigal vanno esaurite appena escono. Il Coteau de Chery di Chapoutier viene assorbito senza sforzo dalle migliori carte dei vini dei ristoranti francesi. L’iconico Château-Grillet è quasi scomparso dal mondo della vendita al dettaglio da quando è passato sotto Artémis. La produzione può essere limitata – ma è anche chiaro che c’è più che sufficiente domanda per questi vini davvero speciali del Rodano settentrionale. L’appellazione e la sua espressione unica dell’uva Viognier hanno una storia accidentata. I Romani furono i primi a coltivare la vite in questo angolo della Valle del Rodano – e da allora è rimasta. Nel XVII secolo, i vini dei ripidi pendii attorno al villaggio di Condrieu erano rinomati in tutta la Francia. Nel 1853 c’erano 143 ettari di vigneti nella regione – ma poi arrivarono piaghe e parassiti: l’oidio dilagò tra le viti, seguito rapidamente dalla fillossera, decimando i vigneti in tutta Europa. Con due guerre mondiali, oltre all’industrializzazione della valle, la manodopera abbandonò le vigne per lavori di fabbrica più stabili e salariati: guardando l’angolo spezza-schiena dei pendii, del tutto non meccanizzabili, è facile capire perché i vigneti della regione furono quasi completamente abbandonati. Quando fu creata l’Appellation d’Origine Contrôlée (AOC) Condrieu nel 1940 (che comprende i villaggi di Condrieu, Vérin e Saint-Michel-sur-Rhône), restavano solo sei ettari di vigne. 
 Negli anni ’60 erano piantati solo otto dei 170 ettari potenziali e il futuro di Condrieu sembrava incerto. Ma un vigneron stava silenziosamente lavorando per cambiare le cose. 
 Georges Vernay – il cui padre Francis Vernay aveva contribuito a creare l’appellazione dopo aver piantato le prime vigne di famiglia sul Coteau de Vernon nel 1937 – credeva nell’alchimia tra i pendii granitici a biotite di Condrieu e l’uva Viognier. All’epoca, la regione era conosciuta soprattutto per la frutta a nocciolo – con un chilo di pesche che valeva significativamente più di un chilo d’uva. (La zona è ancora oggi nota per la frutta; Jean-Marc Roulot si rifornisce delle albicocche per la sua eau de vie e il suo liquore dal Rodano.) Quando Georges Vernay sradicò i frutteti per piantare Viognier, lo chiamarono pazzo. 
 “Nessuno credeva più in Condrieu, né nel Viognier,” mi racconta Philippe Guigal – enologo e terza generazione alla guida dell’azienda di famiglia. Il padre di Philippe, Marcel, fu un altro pioniere della regione, perseverando nel produrre vini di pregio dai terrazzi della zona, economicamente proibitivi. 
 Vernay mantenne la sua fede – promuovendo Condrieu, ma anche il Viognier. Quasi tutto il Viognier del mondo era piantato allora a Condrieu, e Vernay fornì talee a chi era fuori regione – incoraggiando altri a piantare questa varietà distintiva. Allo stesso tempo, promosse la regione con i suoi vini longevi, soprattutto l’ormai iconico Coteau de Vernon. Nel 1986 c’erano ancora solo 19 ettari piantati a Condrieu, ma la battaglia di Vernay iniziò a dare frutti – gli appassionati si innamorarono dei bianchi ricchi e tattili di Condrieu e gli impianti schizzarono in alto. Si contavano 38 ettari di vigne nel 1992 e 217 nel 2024. Ma non fu solo nel Rodano che il Viognier trovò finalmente il suo posto – apparvero impianti nell’Ardèche, nel Languedoc, in Australia, in California (soprattutto con l’ondata dei Rhône Rangers, guidati da Randall Grahm) e oltre. Lo splendore del Viognier era stato restaurato. 
 Sebbene oggi sia molto più diffuso, è solo a Condrieu che il Viognier raggiunge tali vette. Qui, sui ripidi pendii terrazzati in questo angolo consacrato del Rodano, le viti poggiano quasi direttamente sulla roccia granitica – un tipo specifico di granito attraversato dalla biotite, una mica nera ricca di ferro. È questo granito a biotite che definì l’originaria appellazione Condrieu creata nel 1940 – comprendendo i vigneti attorno ai villaggi di Condrieu, Vérin e Saint-Michel-sur-Rhône. L’appellazione-monopole Château-Grillet (che purtroppo non ha potuto commentare per questo articolo) si trova all’interno di Condrieu, classificata quattro anni prima, e condivide lo stesso granito a biotite. Il ferro nei suoli è fondamentale, conferendo la tensione tanto necessaria al Viognier, potenzialmente molle. 
 Trovare – e mantenere – quella tensione è la chiave dei migliori Condrieu. E non si tratta dell’acidità in sé, quanto di un senso di freschezza. 
 Per Emma Amsellem – che lavora accanto a sua madre Christine Vernay al Domaine Georges Vernay – “È una combinazione di cose diverse.” Attribuisce molto alla loro agricoltura (sia biologica sia biodinamica), così come al lavoro con vecchie vigne e rese basse (normalmente intorno a 27-30 hl/ha). Maxime Chapoutier – che lavora assieme al padre larger-than-life Michel Chapoutier nell’omonimo impero – ribadisce quanto l’età della vite sia importante per il Viognier, molto più che per Syrah o Marsanne, dice. Trova che il Viognier inizi a produrre uve di complessità significativamente maggiore a 20-30 anni, ma che le viti possano anche perdere vigore se sono troppo vecchie. 
 “La bellezza dell’equilibrio del Viognier proviene dal suo estratto secco – dalla sua amarezza,” ha spiegato. È, dice Chapoutier, l’uva più difficile da vendemmiare – raccogli troppo presto e non avrai l’estratto secco necessario, raccogli troppo tardi e gli aromi saranno eccessivi. Ansellem ha sottolineato anche l’importanza della data di vendemmia: sebbene si voglia trattenere quanta più acidità naturale possibile, bisogna anche che il Viognier sia sufficientemente maturo – e la finestra si sta facendo sempre più stretta con il cambiamento climatico. 
 La sfida, come la mette Philippe Guigal, è mantenere la ricchezza, la piena espressione del Viognier, insieme alla sua bevibilità e salinità. Ha introdotto un ciclo in stile champenois, molto lungo e lento, per il loro Condrieu – qualcosa che aiuta a far emergere gli aromi e la struttura dell’uva, un concetto ripreso sia da Ansellem sia da Chapoutier, lavorando sulle naturali bucce spesse del Viognier. Chapoutier ha anche evidenziato l’importanza di ossigenare il mosto e poi travasare il meno possibile, trattenendo le fecce per valorizzare la “nobile amarezza” dell’uva. Guigal è anche particolarmente attento alle temperature di fermentazione, ritenendo fondamentale mantenere le fermentazioni sotto i 12°C per evitare potenziali aromi pesanti. È proprio quell’estratto secco che permette ai grandi Condrieu di invecchiare così bene. Chapoutier spiega che gli piace attendere almeno cinque anni prima di aprire il loro Coteau de Chery, ma può invecchiare per 25, sviluppando ulteriori strati di complessità – con note di miele, lanolina, pan di zenzero e scorza di agrumi essiccata. “Un grande Condrieu è un vino che non sa di Viognier,” dice. 
 Degustare una batteria dei vini di punta della regione la settimana scorsa è stato affascinante – dal Coteau de Chery di Chapoutier, notevolmente fresco e floreale, al decadente ma minerale Coteau de Vernon di Georges Vernay. Più di tutto, forse, è stato vedere la reazione dei degustatori – i vini hanno superato di gran lunga le loro aspettative stereotipate. Non tutti gli scettici se ne sono andati innamorati, ma di certo hanno acquisito un rinnovato rispetto per lo stile; e chi già ne era fan se n’è invaghito ancor di più. 
 A Condrieu c’è praticamente nessuno spazio per ulteriori impianti, in gran parte grazie agli sforzi di Georges Vernay nel promuovere la regione, e la qualità nell’appellazione è più alta che mai. Lo stile dei suoi vini inebrianti sarà sempre divisivo – e forse è un bene, dato quanto limitata sia la produzione dei migliori vini. Le sue credenziali “cool” forse non hanno ancora colmato il gap, ma è tempo di aprirsi all’opulento abbraccio della regione – non te ne pentirai. Top cuvée di Condrieu da tenere d’occhio Coteau de Chery di Chapoutier: Da una singola parcella di viti tra i 40 e gli 80 anni, è affinato interamente in rovere vecchio (botti più grandi da 600 litri). La produzione è minuscola (spesso solo due barili) e va quasi esclusivamente ai ristoranti in Francia. 
 Coteau de Vernon di Georges Vernay: Si trova a un tiro di schioppo (circa 100 m) dall’altra vigna singola di Vernay, Les Chaillés de l’Enfer (letteralmente le terrazze dell’inferno, per i suoi ripidi pendii esposti a sud). Dal più famoso pioniere della regione, le viti sono state piantate negli anni ’30 e ’60, in un anfiteatro naturale, producendo un’espressione profonda di Viognier che invecchia magnificamente. 
 La Doriane di Guigal: Il Condrieu di punta di Guigal è un assemblaggio delle loro cinque migliori parcelle dell’appellazione, con età media di 35 anni, maturato in rovere nuovo al 100% – perfettamente integrato con il frutto concentrato e potente. 
 Château-Grillet: La minuscola appellazione-monopole copre 3,5 ettari di vigne. Di proprietà del gruppo Artémis (proprietari di Ch. Latour) dal 2011, i suoi vini sono tra i più ricercati al mondo, scomparendo in gran parte nelle carte dei vini. 
 Condrieu di Yves Gangloff: Rinominato per il suo stile voluttuoso, nel senso migliore, questa bottiglia del celebre produttore è giustamente molto ambita. 
 Chéry di André Perret: Conosciuti anche per la loro cuvée Clos Chanson, Chéry proviene anch’essa dal Coteau de Chery, da una parcella di tre ettari con viti di 70 anni. 
 Les Vieilles Vignes de Jacques Vernay di Ogier: Si producono solo 125 casse di questo vino all’anno, il che lo rende incredibilmente difficile da trovare. 
 Condrieu di Marie & Pierre Benetière: Probabilmente ancora più difficile da reperire delle loro stupefacenti Côte-Rôtie, Pierre fu ispirato da Vernay e studiò con lui prima di produrre i propri vini. 
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Simbolo del Viognier, Condrieu produce alcuni dei vini più straordinari al mondo, ma questa denominazione del Rodano settentrionale ha rischiato di scomparire. Sophie Thorpe esplora come i produttori ne domano l’edonismo naturale per creare vini capaci di sfidare il tempo.

Condrieu’s wines are better than ever. We talk to Georges Vernay, Guigal and Chapoutier about the appellation’s comeback 

Condrieu’s comeback with Vernay, Guigal and Chapoutier 

Il ritorno di Condrieu

2022 Bourgogne Chardonnay, Charles van Canneyt The grapes for Charles van Canneyt’s Bourgogne come exclusively from the Côte d’Or this year. It is fresh, floral, elegant and crisp on the nose, while the palate feels light and crystalline. There’s bright acidity, a round structure, gentle white fruit and a touch of lemon peel, with a long persistent finish. This is easy-drinking Bourgogne which will be enjoyable young, but will age gracefully over the next few years. 2022 Bourgogne Rouge, Domaine Charles Audoin This wine is already bottled and is astoundingly good-value. Audoin doesn’t own any Bourgogne vines, so this is made exclusively with declassified Marsannay fruit, sourced from part of Longeroies (where he also makes a single-vineyard Marsannay), Herbues, Champagne Haute, Champs Forey and Es Chezots. Aged in larger, 500-litre oak, the wine is irresistibly juicy. The nose entices with sweet and dainty red berry fruit, revealing more delicate florals and crushed minerals with air. Pure and vibrant with a savoury, pleasingly bitter note to the finish. Stock up on this and you won’t regret it – astonishing value. 2022 Chambolle-Musigny, Domaine Hudelot-Noëllat Hudelot-Noëllat’s village Chambolle is a blend of 11 parcels around the appellation to provide a true expression of the village as a whole. Charles van Canneyt’s light touch works well with the vintage, creating a classical Chambolle-Musigny. Full of floral lift and delicate aromatics, this is Pinot Noir that pirouettes. But there’s plenty of muscle behind it, with creamy richness and a crunchy, red-fruited persistence to the palate. With a mouth-watering finish, it’s beautifully balanced. 2022 Bourgogne Blanc, Henri Boillot Henri Boillot’s Bourgogne Blanc is made with mainly declassified fruit from the villages of Meursault, Puligny-Montrachet, Saint-Romain and Auxey-Duresses. Combine that with this domaine’s skill and you get a superlative wine (especially for the price) – and particularly in 2022. Henri Boillot feels it’s the Auxey-Duresses fruit that bring the wine such energy – with incredible drive and zingy acidity that almost revs the fruit. The nose is pithy, with citrus lift and a honeyed edge, tight at this youthful stage, like the concentrated palate. Long with a mouth-watering, saline finish, this is unbeatable value. 2022 Mazis-Chambertin, Grand Cru, Domaine Tortochot The Mazis-Chambertin was a highlight in the Tortochot line-up this year. With around two-thirds new oak, it’s a wonderfully sleek Grand Cru. Polished, bright red-berry fruit dominates the nose, but there’s also a savoury edge and crushed-rock character. The tannins are glossy and smooth, with pleasing freshness. While incredibly approachable now, this has the balance and concentration to age. 2022 Morey-Saint-Denis, Premier Cru, Les Millandes, Domaine Heresztyn-Mazzini Les Millandes sits below Clos de la Roche – and is always a favourite in the line-up at Heresztyn-Mazzini, whose vines here are at least 70 years old. In 2022, Florence Heresztyn decided to do a lighter green-harvest on this plot, to avoid a wine that was too powerful, with around 80% whole-bunch fermentation and a lighter toast for the 30% new oak for its élevage. The result is delicious. The nose is intoxicating – with pepper spice, dark fruit and scented florals. There’s a swathe of chalky, velvet, almost nubuck, tannins that cloak the core of dark fruit, all refreshed by wave after wave of mouth-watering acidity. You’re left with delicate florals, lingering long on the tongue 2022 Savigny-lès-Beaune, Premier Cru, Les Serpentières, Jean Marc & Hugues Pavelot Pavelot’s vines in Les Serpentières average around 60 years in age. The wine has always been in the line-up, but until 2022, Hugues Pavelot had just 0.17 hectares – now he has over a hectare, all in the northern part of the vineyard, which generally produces a wine of finesse. It’s particularly true in 2022, with the wine a more delicate, floral and transparent expression of Savigny-lès-Beaune. Bright redcurrant and raspberry fruit fills the core of the palate, framed by grippy tannins and building to a long, mineral finish.   2022 Bourgogne Hautes-Côtes de Nuits, Louis Auguste, Domaine David Duband This wine, named in honour of David’s son, Louis Auguste, comes from higher-altitude sites and some of the domaine’s oldest vines (over 55 years in age). The 2022 is dark-fruited, high-toned and with a ripe, sweet nose. The palate is fresh – awash with a blur of black and red berries, and a more precise, chalky note that dominates the finish. 2022 Bourgogne Rouge, Jean-Marie Fourrier The fruit for Jean-Marie Fourrier’s Bourgogne Rouge all comes from the Côte de Nuits – and that shows in the quality of this impressive wine, which is an outstanding introduction to the producer’s style. Aromatic and bright, this is chock-full of crunchy, pure raspberry and cherry fruit – mouth-wateringly juicy and effortlessly balanced. 2022 Saint-Aubin, Premier Cru, Le Charmois, Au Pied du Mont Chauve Coming from a terroir neighbouring En Pimont (another of Au Pied du Mont Chauve’s sites), this east-facing vineyard is opposite En Remilly, on the other side of the combe. This terroir always retains lovely freshness thanks to its higher altitude, and this is particularly true in 2022. The Charmois spent 18 months on lees, including 10 months in oak. It has a very perfumed and expressive nose, with notes ranging from ripe peach to white flowers. The wine has great body, complex and fruit-driven with lively acidity that makes for a crisp finish. This should be approachable immediately but has enough acidity to age for at least 10-15 years. 2022 Coteaux Bourguignons, L’Eclos des Abeilles, Domaine de Bellene This wine is once again excellent for what is “just” a Coteaux Bourguignons, rivalling some top village appellations. The fruit for this cuvée comes from cooler vineyards on the limits of the Bourgogne appellation in Nantoux (where the vines are 80 years old), Saint-Romain and Nuits-Saint-Georges, classified as Coteaux Bourguignons (an appellation more often associated with reds). Honeyed, fresh and round, it has bright citrus and orange peel notes, with vibrant acidity and a long, mouth-watering finish. This absolute favourite will be delicious young, but also evolve nicely over the next six to eight years. There is around 15% new oak here. Drink 2024-2032. 2022 Morey-Saint-Denis, Premier Cru, Les Sorbès, Domaine George Lignier Benoît Stehly already had 0.19 hectares of this vineyard just in front of the village cemetery, but it has historically gone into his Premier Cru blend. As of 2022, however, he has another 0.19-hectare plot and bottled the cuvée separately for the first time, making four barrels. It’s gorgeous – with a bright, tart-fruited intensity on the nose. The palate is lush with raspberry and cherry – the fruit of impressive purity. Velveteen tannins frame the fruit, while the long finish offers a savoury, smoky note.

The grandest names in the Côte d’Or might be the most desirable – but there’s much more to the region beyond the very top appellations. Here we highlight the wines that we think offer the best value in 2022

Discover the best-value wines from our tastings of the Burgundy 2022 vintage so far – from up and down the Cote d’Or

The best-value wines in Burgundy 2022

Burgundy 2022: top-value buys

Our team spent several weeks exploring the 2023 vintage in Burgundy – visiting, tasting and talking to a range of producers up and down the Côte d’Or. Here, we offer a run-down of the year by producer, from north to south, reporting on how each fared and our pick of their range this year

A run-down of the Burgundy 2023 vintage wines en primeur by producer: from Fourrier to Lafon via Bernstein, Lamarche, Lambrays, Duroche and Hudelot-Noellat 

Burgundy 2023 vintage by producer 

Burgundy 2023: by producer

Ogni novembre, il mondo del vino guarda alla Borgogna per l'asta degli Hospices de Beaune. Ci immergiamo nella storia di questa istituzione filantropica, della tenuta e dei vini che produce.

Explore the history of Burgundy’s Hotel-Dieu and Hospices de Beaune, its wine estate and the famous annual auction, the Vente des Vins

Your guide to the wines of the Hospices de Beaune

Tutto quello che c'è da sapere sugli Hospices de Beaune

2021 Bourgogne Hautes-Côtes de Nuits, Louis Auguste, Domaine David Duband  
This wine, named in honour of David’s son, Louis Auguste, comes from higher-altitude sites and some of the domaine’s oldest vines (over 55 years in age). In 2021, it’s spicy and lifted – offering a mouthful of pure, crunchy red fruit. It’s fresh and mouth-watering, building to a savoury, smoky finish. Superb value.  


2021 Gevrey-Chambertin, Charles van Canneyt  
This village bottling is an excellent entry point to Charles van Canneyt’s range – especially if you can’t get your hands on any of his Domaine Hudelot-Noëllat wines. The 2021s may be the best vintage to date of his négociant label, with a line-up of elegant and vibrant wines that offer great value. The village Gevrey-Chambertin is a wine of such finesse – with a lifted, perfumed nose. But behind the aromatics, there’s a more serious palate, with persistent, focused fruit, and vivid acidity driving through the core of the wine. The long finish is scented with delicate florals. 


2021 Gevrey-Chambertin, Domaine Duroché  
Because yields were so low in 2021 (due to frost and hail in the north of Gevrey), Duroché’s 2021 village Gevrey includes fruit from Le Clos, Champ, En Vosne and what little survived the hail in Premier Cru Champeaux. All Duroché’s vines are old, and for this cuvée, they were all planted between 1930 and 1986. The nose is perfumed and floral, but it’s the palate that really sings – with a tight energy and ripe, round mouth-feel. A gentle toastiness (with 15% new oak) coats the sweet, red cherry fruit. This vibrates with potential – the finish long, saline and mouth-watering. A brilliant introduction to the Duroché style. 


2021 Savigny-lès-Beaune, Premier Cru, Aux Guettes, Domaine Jean-Marc & Hugues Pavelot  
This vineyard sits just below the forest, with only 30cm top-soil over the hard rock below. The Pavelot plot (a mere 0.35 hectares) shows a totally different side to Savigny – brighter and lighter, with vibrant red fruit and a creaminess (with 25% new oak). The nose is full of raspberry and cranberry, with a welcome, sublime freshness thanks to this more “traditional” vintage. The medium-bodied palate is mineral and elegant, with great tension. The oak is well-integrated, bringing extra weight to the mid-palate, building to a vibrant, long finish. This is a top wine – classic and airy, as Burgundy used to always be. 


2021 Givry, Premier Cru, Clos Marole, Domaine Joblot  
Clos Marole is one of the few survivors from a catastrophic growing season at Domaine Joblot, with yields slashed by 50%. But – even if there’s not very much of it – the wine is superb. You’re instantly struck with vibrant, fresh red fruit, blackberry and crushed strawberry – possibly thanks to the old vines (on average 40 years old). The oak (35% new) needs a little more time to integrate fully, but is well-judged. Relatively light-bodied, the palate is driven by great acidity and silky tannins. The finish is long and suave. Enjoy this delicious wine young, but it has everything to keep for a decade or more.  


2021 Morey-Saint-Denis, Premier Cru, Clos des Ormes, Domaine George Lignier  
Domaine Georges Lignier is the largest owner in Clos des Ormes, with almost two hectares of the Premier Cru, all on calcaire comblanchien. The nose is pretty and perfumed with sweet spice notes courtesy of the oak (around 25% new). The fruit is bright and crunchy, yet there’s a darker, more brooding aspect on show – with a powdery tannic structure adding texture to the pure, long palate. An impressive result in the vintage.  


2021 Coteaux Bourguignons, L’Eclos des Abeilles, Domaine de Bellene  
Nicolas Potel only made 6,000 bottles of this wine in 2021 (instead of 20,000 normally) – yet it’s once again excellent for what is “just” a Coteaux Bourguignons, rivalling some top village appellations. The fruit for this great-value cuvée comes from cooler vineyards on the limits of the Bourgogne appellation in Nantoux (where the vines are 80 years old), Saint-Romain and Nuits-Saint-Georges, classified as Coteaux Bourguignons (an appellation more often associated with reds). The wine is mainly Chardonnay, however there’s a sprinkling of Aligoté adding extra zip.  The nose is honeyed, fresh and mineral, with the palate crisp at first, with clean acidity and superb balance. It rounds out with toasted almond and citrus, building to a long finish that brings a generous dimension of complexity to the wine. It is almost ready to drink now. A superb effort from Potel.  
  
2021 Puligny-Montrachet, La Rue aux Vaches, Alvina Pernot  
This was a particular highlight of our tasting – offering a very different style to Clos des Noyers Brets. Versus the soft purity of Clos des Noyers Brets, this is both more mineral and with a riper core of fruit – juicy white peach and apple, but with a bright, zesty green edge to it, and the very slightest hint of toast. The texture is richer and creamier, offering a pleasingly round yet beautifully elegant mouthful. Long and nuanced finish. This was bottled exclusively in magnum – with just 146 produced.   


2021 Saint-Aubin, Premier Cru, En Remilly, Louis Jadot 
In 2021, there is just one barrel of this Premier Cru – and it’s exclusively available from FINE+RARE. Pithy with flinty, mineral tones that complement an almost orange-zest lift. Behind the citrus and minerals though, there’s a core of fresh, white-peach fruit and toasty, spicy oak that lingers on the finish. The concentrated core is balanced by vibrant acidity, with that creaminess rounding out the lithe palate. Delicious.  


2021 Chablis, Grand Cru, Les Blanchots, Domaine Long-Depaquit  
Domaine Long-Depaquit has 1.66 hectares of this cool Grand Cru. They managed to make just 20% of a normal crop in 2021, the region’s yields drastically reduced by cruel April frosts. This was a particular highlight of our tasting – with an intense, taut, lime-and-lemon profile. Although the fruit verges on lean, there’s a brightness to the wine too. Notes of chalk, oyster shell and Granny smith apple are complemented by a creamy, round character. The finish is long and zesty – classic, pinpoint Chablis. 
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The grandest names in the Côte d’Or might be the most desirable – but there’s much more to the region beyond the very top appellations. Here we highlight 10 of the wines that we think offer the best value in 2021 

Discover the 10 best-value wines from our tastings of the Burgundy 2021 vintage so far – from up and down the Cote d’Or

The best-value wines in Burgundy 2021

Burgundy 2021: top-value buys

Per oltre due decenni, Donum ha lavorato con discrezione alla creazione di vini da singolo vigneto, singolo clone e talvolta singola botte. Con un nuovo vigneto di proprietà, Rachael Ryan – Senior Buyer della nostra divisione statunitense, Vinfolio – si è seduta con l’enologo Dan Fishman per scoprire di più su questa ambiziosa tenuta. 
 Come gran parte del Nuovo Mondo, la California evita una gerarchia dei vigneti. Eppure, in assenza di Grands Crus e Premier Cru classé, alcuni vigneti sono semplicemente riconosciuti come un gradino sopra gli altri. Chiedete a qualsiasi enologo una lista dei desideri di vigneti, e ricorrerà una manciata di nomi familiari. Uno di questi è il Savoy Vineyard. 
 Annidato all’estremità nord della Anderson Valley, Savoy è stato piantato per la prima volta nel 1991 ed è diventato rapidamente una fonte di Pinot Noir per alcune tra le cantine più rispettate della California del Nord, tra cui Littorai, Williams Selyem, Radio-Coteau e Peay, con molti altri in lista d’attesa. L’anno scorso, però, è stato acquisito da Donum, una cantina con sede a Carneros con la reputazione di produrre piccoli lotti di Chardonnay e Pinot Noir, venduti esclusivamente a collezionisti privati e quindi raramente visti sul mercato. 
 Dal 2001, anno della sua fondazione, Donum aveva lentamente esteso il proprio raggio d’azione oltre Carneros, con vigneti nelle valli del Russian River e dell’Anderson, oltre alla Sonoma Coast. Con l’acquisizione di Savoy, tuttavia, la loro già invidiabile collezione di vigneti ha compiuto un salto molto notevole – e consistente. L’acquisizione di questo prestigioso vigneto segna un cambiamento per Donum, che ora produrrà vino solo da uva di proprietà: 130 acri nella loro tenuta a Carneros, 16 acri al Winside Vineyard nella Russian River Valley, 20 acri nel nuovo Bodega Vineyard sulla Sonoma Coast e 42 acri piantati al Savoy Vineyard nella Anderson Valley. 
 Già ben noti per la loro collezione d’arte di livello mondiale (con oltre 50 opere di artisti come Keith Haring, Yayoi Kusama e Ai Weiwei), ciò che molti visitatori potrebbero non realizzare è che Donum ora ha una solida presenza in ciascuna delle regioni di punta per Pinot Noir e Chardonnay della California del Nord. Per certi versi, i vigneti di proprietà di Donum sono intrinsecamente simili, forse collegati soprattutto dallo strato marino. Questa densa coltre di nebbia arriva dall’Oceano Pacifico quasi ogni pomeriggio durante la stagione vegetativa ed è una caratteristica chiave di ciascuno di questi siti. La dinamica di questo strato marino rinfrescante è in parte semplice. Quando le temperature salgono nella California interna, l’aria calda si alza, creando un vuoto nel quale si riversa l’aria più densa e fredda che sosta sopra l’Oceano Pacifico. In una tipica giornata estiva, le aree costiere sono completamente coperte di nuvole nel tardo pomeriggio, e la nebbia continua ad avanzare nell’entroterra, cercando varchi e valli nelle catene costiere per estendere la sua portata. Quest’aria fredda e umida sia riduce le ore di luce solare sia mantiene basse le temperature. In altre parole, questo fenomeno costiero è un aiuto estremamente utile nella produzione di vini vivaci che conservano un margine di freschezza. 
 A parte l’influenza della nebbia rinfrescante, tuttavia, i vigneti coltivati da Donum sono topograficamente piuttosto diversi. La proprietà di Carneros, con le sue dolci colline e la vicinanza alla baia, si estende nella porzione meridionale delle contee di Sonoma e Napa (sebbene la proprietà di Donum sia saldamente situata sul lato di Sonoma), con venti costanti che soffiano da sud-est sopra la San Pablo Bay conferendo alla regione un’ampia escursione termica e ai vini risultanti un senso di tensione energetica. L’Anderson Valley, d’altra parte, è una stretta striscia incisa in una fitta e antica foresta di sequoie, ed è difficile non collegare mentalmente le colline scoscese che fiancheggiano la valle su entrambi i lati con un analogo nucleo sempreverde e terroso nei vini. La Russian River Valley è un microclima più caldo, più distante dall’influenza rinfrescante dell’oceano o della baia, con suoli limosi che producono uno stile di vino più concentrato, con frutto fresco opulento. 
 Ma per Dan Fishman (Vice President of Winemaking and Vineyards) forse la caratteristica più unificante tra i vari siti è un’iper-attenzione all’agricoltura, che ritiene sia il modo migliore – e forse l’unico – per mettere in mostra questi terroir unici. Quando entrò in Donum nel 2007 come stagista di cantina, la conduzione era convenzionale, con applicazioni di routine di erbicidi e fertilizzanti sintetici. Negli ultimi anni, tuttavia, ha guidato una svolta verso l’agricoltura biologica. 
 Tra gli elementi salienti di questo approccio vi sono un programma di compostaggio in loco, in cui il letame delle aziende lattiero-casearie locali viene aggiunto alle vinacce della cantina e ai tralci della potatura. Altre iniziative ecologiche includono un sistema di lotta integrata, un ampio inerbimento (Fishman stima che Donum utilizzi attualmente 20 diverse miscele di sovesci composte da oltre 40 specie vegetali), nonché animali introdotti tra i filari per il pascolo invernale. Tutti questi sistemi hanno migliorato la struttura del suolo, “restituendo al suolo più di quanto gli togliamo”, spiega. Uno sguardo tra i filari della tenuta di Carneros rivela questo cambio di filosofia viticola, con sovesci rigogliosi e api in volo. Tra le sculture che punteggiano la proprietà si celano viti coltivate meticolosamente. Sebbene l’arte sia spettacolare e difficilissima da ignorare, l’attenzione ai dettagli nei vigneti è forse ancora più impressionante. Donum è ora una delle prime cantine della contea di Sonoma ad aver ottenuto lo status Regenerative Organic Certified (ROC) per tutti i suoi vigneti di proprietà, ed è anche certificata biologica dalla California Certified Organic Farming Association (CCOF) dall’estate del 2022. Lo status ROC, tuttavia, è quello di cui Fishman è particolarmente orgoglioso, poiché comprende non solo la salute del suolo e la gestione della terra, ma anche il benessere degli animali e le condizioni di lavoro dei dipendenti. 
 Alla domanda se abbia riscontrato differenze nel comportamento delle viti e nella qualità dell’uva da quando ha intrapreso un rigoroso approccio alla viticoltura biologica, la risposta di Fishman è un sì deciso. Indica la stagione di crescita 2023 come esempio lampante. In un anno caratterizzato da precipitazioni da record protrattesi fino all’inizio della primavera, la minaccia della peronospora era insolitamente alta. “I nostri vicini convenzionali spruzzavano a più non posso e avevano comunque peronospora,” dice Fishman, “ma noi ovviamente usavamo metodi biologici applicandoli meno frequentemente, e abbiamo avuto molta meno peronospora. Penso che stesse emergendo la resilienza naturale delle viti.” 
 In linea con una più ampia tendenza generale nella California del Nord, Fishman afferma anche di aver cercato di mettere a punto peso e concentrazione di Chardonnay e Pinot Noir prodotti in ciascun vigneto. Se la sfida storica della Borgogna è stata ottenere una maturazione omogenea vendemmia dopo vendemmia, il problema della California nella coltivazione di Pinot Noir e Chardonnay è stato quasi l’opposto: come domare l’abbondante luce solare e controllare il vigore risultante da giornate calde e suoli fertili. Se la nebbia aiuta in questo compito, un vantaggio inatteso dell’intenso focus aziendale sull’agricoltura, spiega Fishman, è che le viti sono più in equilibrio. “È qualcosa di sottile,” dice, “ma anche la nostra chimica del vino sta migliorando – acidità più alta e più sapore a zuccheri più bassi.” L’opulenza ha lasciato spazio a misura e sfumatura. 
 La gamma risultante dei vini di Donum è un’impressionante dimostrazione di vinificazioni in piccoli lotti, suddivise non solo per denominazione o vigneto, ma spesso anche per singoli appezzamenti. Nel 2021, la cantina ha prodotto in totale sei Chardonnay distinti e 17 Pinot Noir da Carneros, Russian River Valley e Anderson Valley. Con lo sviluppo del loro vigneto più recente sulla Sonoma Coast, la già complessa trapunta di vini di Donum sta per diventare ancora più ampia. Con una mano leggera sia in vigna sia in cantina, Fishman spera di mettere in risalto le variazioni più minute in ogni vino, permettendo che le caratteristiche innate di ciascun sito emergano. “Abbiamo un focus davvero intenso innanzitutto sul sapore di vigneto,” spiega. 
 “Non stiamo cercando di imporre uno stile di casa, lasciamo che sia il vigneto o l’appezzamento a parlare,” continua Fishman, “Stiamo cercando di fare il miglior Pinot Noir e Chardonnay della California, ovunque essi nascano.” Con accesso a un assortimento così ampio di posizioni di primo piano, ora includendo l’illustre Savoy Vineyard come piuma nel cappello metaforico, dire che il futuro di Donum è entusiasmante è davvero un eufemismo. Sebbene molti possano pensare al Pinot Noir e allo Chardonnay californiani come a un unico gruppo di vini, un monolite con poca variazione di stile, Fishman e il suo team di Donum sperano di cambiare questa mentalità, un vigneto alla volta. 
 Storicamente i vini Donum sono stati disponibili solo per coloro che erano nella loro mailing list, ma ora stiamo lavorando direttamente con la tenuta: sfoglia tutte le inserzioni attuali di Donum.

L'attenzione di Donum al territorio la contraddistingue. Parliamo con l'enologo Dan Fishman dei vini, dei vigneti e delle ambizioni significative della tenuta.

Donum’s focus on site sets it apart. We talk to winemaker Dan Fishman about the wines, vineyards and estate’s significant ambitions

Discovering Donum’s single-site wines

Primo posto: Donum

I was hesitant about meeting Ivan Massonnat. The man who created Domaine Belargus seemed to fill easy stereotypes. A background in private equity. Lived in Paris. A passion for wine – and a dream to make it himself. Big scores and some pretty punchy prices for a brand-new estate from the Loire. Reading between the lines, I feared there was a lot of cash and possibly too much polish. Thankfully, I was wrong.  Created in 2018 and based in Anjou, Domaine Belargus has rapidly become one of fine wine’s hottest new names. The first wines were released in 2021, in the midst of the global pandemic, but had already earned serious acclaim. Yohan Castaing wrote in Decanter, “Remember this name, as its production should meet with resounding critical success in the coming years.” The wines received glowing reviews in Wine Spectator and the Wine Advocate – where Stephan Reinhardt declared it “one of the most spectacular new entries in the history of [the publication]”, granting a coveted 100-point score for its 2018 Quarts de Chaume Ultra. But that was just the beginning. Ivan Massonnat is a man with big plans – both for his own wines, and the region as a whole.  Wine was a part of life for Massonnat from a young age – with his grandfather farming a small vineyard in their village in the Savoie. But, despite helping at harvest time each year, he didn’t end up drinking wine until he was 20, when he was “instantly hooked”, he says. He fell in love with Burgundy and the concept of “vin de lieu” – wine of place.  Massonnat made his money in private equity, based in Paris but travelling the world, where fine dining – and fine wine lists – only fed his terroir obsession. Two decades ago he was looking for a country house for his family, and – not having a car – settled on the Loire. “The more I was spending time there, the more I realised that the region was totally misunderstood,” he says. Prior to the upheaval of the French Revolution and the subsequent arrival of mildew and phylloxera, the Loire was one of France’s most prestigious wine regions – home to the nation’s kings, the fruit of its vines were the royal court’s natural choice. Post-phylloxera, however, quality was scrapped in favour of quantity. “Its image started to blur,” says Massonnat.  Combine the region’s history with its two great, native varieties – Chenin Blanc and Cabernet Franc – and Massonnat saw “an incredible diamond in the rough”. Wine had become an increasingly large part of his life – tasting widely and visiting producers as much as possible, especially in Burgundy where vignerons such as Philippe Pacalet and Thibault Liger-Belair friends and mentors. But it wasn’t just a hobby – Massonnat was starting to think this could be more, the adventure that lay beyond the world of finance.  As the adage goes, the world of wine is a brilliant way to make a small fortune – provided you start out with a large one. Massonnat, however, didn’t underestimate the challenges and set about getting to grips with the mechanics of the business. “It started really to become a project 10 years ago,” he says – talking to importers, consultants, journalists and merchants. And, perhaps unsurprisingly given his successful career, Massonnat wasn’t looking to make any wine – he was determined to create something exceptional.  After a failed attempt to buy a Chinon estate in 2015, he turned his attention to great Chenin Blanc sites in Anjou Noir, between the Layon and Loire rivers – low-yielding hillsides where producers were struggling to make money and consequently there was land to buy. More than just availability, it was here that Massonnat saw great potential. The area’s dark, schist soils (cause for the “noir” in the region’s name) were littered with tiny appellations, echoing those of Burgundy, with a much hillier landscape, and the only Premier and Grand Cru vineyards in the region.  Between 2016 and 2018, Massonnat started visiting every vineyard he could find – looking for the exceptional. Then the local winemaker Patrick Baudouin introduced him to Jo Pithon – a legend of the Loire. Pithon had been making wine since 1978, a pioneer of organic farming, crafting fine dry and sweet wines – but the talented vigneron was by no means a businessman. By the early 2000s, his lack of commercial knowhow lost him the rights to his name, along with the majority of his vineyards – all but one plot, the Coteau des Treilles.  Massonnat met Pithon at the Angers wine fair in 2018; they got on well enough and he arranged to see Pithon’s vineyards the following day. The next morning, it was snowing and he regretted his decision . But then, at 8.32am on 6th February 2018, “It’s as if I was struck by lightning,” Massonnat says. Pithon had brought him to Coteau des Treilles. Long farmed organically, it has slopes at a gradient of 70%, embedded in a natural reserve, with a Mediterranean microclimate – and Massonnat knew instantly it was what he had been looking for. He bought the Pithon-Paillé operation that Jo Pithon had created a decade earlier.  Luck continued to be on Massonnat’s side – and he bought two other vineyards over the next six months, adding to his collection of prime sites. He managed to buy a quarter of the Quarts de Chaume appellation – the only Grand Cru vineyards in the region – which amazingly had been on the market for 10 years. “Nobody wanted to buy it… They were looking at it as a sweet wine terroir. But actually, a great terroir is a great terroir… you will do dry wines that are quite exceptional,” Massonnat explains. Then he snapped up a parcel in Savennières – the only plot to have been sold in the last seven years.  He hired a young team and Pithon stayed on to consult – and the real work began. “Belargus is a 100-year project. Everything we do, we have that horizon,” Massonnat says. The vines are all organically certified, but they’re now working towards biodynamic accreditation. Yields are low, and they’re trying gradually to increase them to around 35hl/ha in a good vintage (currently the highest they’ve managed is 29hl/ha). “Our obsession is to have the right maturity,” Massonnat explains. To battle Chenin Blanc’s natural heterogeneity, they pick in multiple passes, minimum two or three but up to six, depending on the year – and that is just for the dry wines. The general approach is minimalist – with stainless steel and mainly larger, old oak, indigenous yeast, letting malolactic fermentation happen (or not), keeping wines on the lees and using only essential levels of sulphur. A new winery is being planned to take things to the next level, with, for example, a Coquard press (allowing especially gentle pressing, commonly used in Champagne).  The project is about expressing the different terroirs of this corner of Anjou Noir. The first release (which sold almost instantly given the hype from the critics, with 80% exported) consisted of 14 cuvées – nine dry wines and five sweet, focusing on nine specific plots across the estate’s vineyards. The dry wines are powerful, tightly wound and intense – as Massonnat says, “It’s not wine for every day,” comparing them to white Hermitage or Corton-Charlemagne, wines that need food and time. Although 90% of production is dry, Massonnat confesses, “We are obsessed with sweet wines.” These, he feels, are what will really set Anjou Noir on the world stage – if, perhaps, what he calls “the sugar pandemic” ever stops.   With Massonnat’s finance background comes a flexibility that few others have. He hopes to hold all the wines back four years eventually, but for now it is between three and four – and he was able to release the 2020s before the exceptional 2019s. It also allowed him to set prices unusually high compared to his neighbours. “I had the luxury to make that choice for the region,” he explains. “I wanted to break the glass ceiling.” And although he thought it would take time – his first release proved that there were plenty of people ready to snap up the value that these wines offered, including many of those now priced out of Burgundy.  And this is his real dream – for the Loire to be recognised as Burgundy is, as “a tier-one region which any collector needs to have in its cellar, that needs to be understood”. It’s easy to imagine other producers might have bristled at an outsider’s arrival, pitching their very first wines at unheard-of prices; but Massonnat is intent on leading the crusade for the entire region, not just Domaine Belargus. He volunteered to run the Paulée d’Anjou – a celebration of the region’s wines – in 2019, and made it bigger and better. In 2021, he became co-president of the Quarts de Chaume appellation, alongside Marie Guégniard from Domaine de la Bergerie. Together they are fighting for the appellation to permit both dry and sweet wines, as Savennières technically can, and Quarts de Chaume could until 1996. “Anjou was a dirty word. And look at the revolution now,” he says.  Like the precious blue butterfly that gives its name to the Belargus estate, Massonnat isn’t happy sitting still – and he’s already got another project – having had the chance to buy the Chinon estate he’d originally had his eye on in 2015. The best wine he ever tasted was a Chinon, a 1989 from Charles Joguet. “There was a whole civilisation in this wine,” he told me, trying to explain how moving the experience had been. There’s no doubt that Massonnat is a canny businessman, but his vision is extraordinary – and one that he seems set to realise.  Explore all current listings of Domaine Belargus or read more Editorial 

Since it was created in 2018, Domaine Belargus has become a name to watch. Sophie Thorpe sat down with Ivan Massonnat, the man behind the project, to find out more about the Anjou estate and his vision for the region

With top reviews for its first releases, Anjou estate Domaine Belargus has become a name to watch. We sat down with founder Ivan Massonnat to find out more

Talking to Domaine Belargus’s Ivan Massonnat

The archangel of Anjou: Ivan Massonnat

Andrew Jefford isn’t like other wine writers. Browse his Instagram account and you’ll find not a bottle in sight. Check his Twitter and you’ll find a steady, quiet stream of haiku – or, as he prefers to describe them, “short texts”. These feeds are – like Jefford –gently honest; absent of ego, flash and fanfare. His prose is poised and purposeful, each word carefully considered yet never weighed down by pointed effort. He is a rarity in the world of wine: a writer whose (main) topic happens to be wine.  “I was always a huge reader. It always meant more to me than anything else,” Jefford tells me, thinking back to his childhood. But wine was omnipresent. As the son of a priest, it was a part of family life, consumed “on high days and holidays”.   “I remember first tasting Champagne with my brother, at the age of 10 or 11,” he says. “It was the first tasting note we agreed on: it tasted like vomit. Things got better from then on, happily.” The slight, wiry wine writer smiles, seeming almost sheepish about the wines that he’s since enjoyed.  Aged 16, Jefford decided to start making wine – brewing up grape juice concentrate and whatever else he could find– to supplement supplies at Sunday lunch. The transformative effects of fermentation hooked him – but it was the concept of terroir that reeled him fully in.  He was working at a local hospital, but after his shift – armed with The Penguin Book of Wines and André Simon’s A Wine Primer – he’d venture out to browse the shelves of “French Wine Farmers”, a wine shop in Norwich. He vividly recalls taking home a bottle of Chianti and being struck by the magic of travelling through a glass. “That’s full of wine. And every drop in there came from a vine in Tuscany. I’m drinking Tuscany!” he recalls thinking.“ And I’ve still not got over that. It’s amazing.”  Wine took a back seat when he set off to study English at the University of Reading, before embarking on both a Masters and PhD. The lure of words led him into publishing – a background which, along with his academic approach, defines his writing today. He spent four years “editing mediocre copy into something readable” – but eventually had had enough, and leapt at the chance to write a book on Port.  From there, he wrote articles for Margaret Rand in Wine Magazine, then Decanter, where he’s now a Contributing Editor and his monthly column is the stuff of legend. He was, for a number of years,The Evening Standard’s drinks writer, penned features for The Financial Times and is a regular in The World of Fine Wine. He’s authored several books – including the deservedly totemic The New France. Published in 2002, it looked beyond Burgundy and Bordeaux, shining a light on the nation’s varied wine scene at a moment when it was going through a revolution. If that wasn’t enough, he’s dabbled in radio, presenting for BBC Radio Three and Four.   While wine might be his mainstay, he’s written extensively on whisky and other spirits (including his respected book on Islay, Peat Smoke and Spirit), as well as travel and perfume. But writing, rather than any particular topic, is his real trade. His editorial experience has been key: his prose is intelligent, considered and a masterclass in eloquent economy – something that he finds all too often lacking elsewhere.   Two of Jefford's most famous books: The New France (2002) and Peat Smoke and Spirit (2004) “One of the problems is that a lot of [wine writing] is online, so there aren’t space constraints,” he decries. “[Wine writing] tends to attract quite large egos. They do write three times more than they need to – because they think it’s all wonderful.” It’s perhaps the lack of ego in Jefford’s writing that sets it apart. He seems to approach any topic unbiased and open – still with the wide-eyed joy of that first bottle of Chianti. Wine remains, to him, “dead exciting”.   “It’s a great shame that fairly early on the rest of the journalistic world decided that wine was a ghetto,” Jefford laments. “It embraced wine with gusto initially – probably in the 1990s – then it all got very boring once we passed 2000 and they just asked everybody to offer recommendations and that’s it. Newspapers are no longer a great school for wine writing in the way that they once were.” It is an industry, he feels, sorely in need of imagination. “There’s such a weight of detail to communicate that people never get their head above the waves of the detail.” And that detail, the intricacies of wine – or “its enormous apparatus of geekdom” – are the challenge. He hopes that his latest book, Drinking with the Valkyries – a collection of his work from the last 15 years, “could climb out of the wine ghetto – to anybody who enjoys language, enjoys storytelling, enjoys the interrelation of place and flavour that wine can offer”.  But, by his own admission, wine is “never going to be a mass market popular subject”. While the industry was long obsessed with finding its own “Jamie Oliver” – someone to bring wine to the masses, food is an essential part of life – “whereas wine need be a part of nobody’s life”.   Wine has, undoubtedly, come a long way – “vastly democratised” – but he worries about the “top end of things”, where wine has become so exclusive as to be “almost a plutocracy”. Wine criticism, for him, is intricately linked to the category’s self-imposed segregation, with “its relentless focus on points, excellence and things being better than other things – hierarchy, rather than difference”.  He’s long been vocal about scoring, feeling like Hugh Johnson that – although they may be of practical use to consumers, who undoubtedly want them – they are “philosophically untenable” and “disempowering”.  “You’re being misled to some extent if you think the 96-point wine is always better than the 94-point wine. It’s miles more complicated than that,” says Jefford, who scores wines reluctantly.“ And very often the 89-point wine can be better than either the 96- or 94-point wine.” His advice to wine drinkers is simple: “Trust your palate.”  Despite his impressive resume and effortless intellect, Jefford’s modesty shines through in our conversation – as we dash from the dangers of climate change (“Misery throughout the Third World – but the Bordelais and Bourguignons are raking it in”) to a fascinating co-fermented 15-variety blend from a Lirac estate (Ch. de Montfaucon’s Vin de Mr le Baron). And while the 66-year-old might be softly pensive in the written – and spoken – word, there’s such energy to the man himself.  He’s invariably described as a wine thinker, a philosopher-cum-writer, as well as – of course – a poet; but it’s impossible to pigeon-hole Jefford, his ideas, or his voice.  Andrew Jefford’s book Drinking with the Valkyries, published by Académie du Vin Library, is out now.

Andrew Jefford is one of the world’s greatest wine writers. As his latest book – Drinking with the Valkyries – is released, Sophie Thorpe caught up with the wordsmith to talk about his career so far, the art of writing and why he’s so against scoring 

Andrew Jefford – one of the world’s most famous wine writers – on his career, the art of writing and why he’s so against scoring wine

Sitting down with wine writer Andrew Jefford

Andrew Jefford: wielding words

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