La California è il cuore pulsante del vino americano. Dal Cabernet Sauvignon di Napa al Pinot Nero di Sonoma, dallo Chardonnay di Santa Barbara ai blend ispirati al Rodano, offre una gamma straordinaria di vini pregiati che rivaleggiano con i migliori al mondo.

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California

Come abbiamo commentato nel nostro rapporto del 2022, le annate a Napa sembrano essere sempre più definite da condizioni estreme. La vendemmia 2023, tuttavia, è stata – come l’ha descritta Neil Bernardi MW, COO di Colgin – “notevolmente non notevole”.
 “È stata un’annata calma e controllata”, ha detto la produttrice Cathy Corison, che vinifica con la sua etichetta eponima dal 1987. “Non c’è stato nulla che ti costringesse a intervenire. Non faceva né troppo freddo, né troppo caldo, né pioveva. Abbiamo avuto il lusso del tempo.” Per la Corison, è stata un’annata esemplare, facilmente una delle sue preferite – anche se non è ancora pronta a dichiararla la migliore della sua carriera (almeno per ora). E non è la sola: in tutta la valle, si sono moltiplicate le voci entusiaste, con molti che considerano la 2023 una delle migliori annate della storia recente. Il clima dell’anno è stato insolitamente fresco a tratti, ma nel complesso senza eventi significativi. Guardando ai mesi precedenti la stagione vegetativa, tuttavia, la California settentrionale ha ricevuto livelli di pioggia storici. Con un clima mediterraneo classico, le regioni vinicole della California vivono estati calde e secche, e la maggior parte delle piogge cade tra ottobre e aprile. Negli anni di siccità del 2020 e 2021, Napa ha ricevuto appena 8 e 10 pollici di pioggia rispettivamente. L’annata 2022 ha portato un sollievo tanto atteso, con 26 pollici di pioggia misurati a Oakville – praticamente nella media rispetto agli ultimi 10 anni. I record sono stati però infranti nel 2023, con un incredibile totale di 58 pollici di pioggia registrati tra la fine del 2022 e l’inizio della vendemmia 2023. I bacini locali si sono riempiti fino a traboccare e molti vigneti nelle aree più basse sono rimasti sott’acqua durante l’inverno. Le piogge sono proseguite fino a maggio, intervallate da fitte nebbie e, con i suoli saturi e cieli coperti, il germogliamento è stato ritardato di circa due settimane. Sebbene la maggior parte dei produttori sul fondovalle abbia riportato un’ottima allegagione e carichi d’uva superiori alla media, non è stato così ovunque. Sulla Spring Mountain, presso la Philip Togni Vineyard, la vinificatrice Lisa Togni ha spiegato che le tempeste arrivano prima in questa zona, dove le nubi si soffermano più a lungo. Umidità e vento possono ostacolare l’impollinazione, riducendo il numero di acini per grappolo. Le rese, pur non essendo storicamente basse, sono state comunque inferiori alla media nel 2023. Al contrario, Sam Kaplan, enologo di Arkenstone e Memento Mori, ha riferito di aver dovuto diradare “in modo aggressivo” durante la stagione di crescita, a causa di rese potenziali più alte del normale e grappoli grandi e perfettamente formati. Le temperature primaverili sono state più fresche della media, una tendenza che è proseguita per tutta l’estate. A giugno e luglio, le temperature non hanno mai superato i 32°C – fatto altamente insolito rispetto a ogni annata dell’ultimo decennio. Ad agosto le temperature sono salite leggermente, ma senza eventi di caldo estremo. “Le cose peggiori possono accadere nella prima settimana di settembre”, ha osservato l’enologo e viticoltore Steve Matthiasson. La maggior parte dei produttori di Napa trattiene il respiro durante il weekend del Labor Day, ormai tristemente noto per ondate di calore e incendi. Nel 2023, però, il maltempo non si è manifestato. Temperature moderate, leggermente inferiori alla media, sono persistite per tutto settembre, e le uve sono rimaste a lungo sulla vite, accumulando lentamente zuccheri e aromi. Per molti produttori, la sfida più grande del 2023 è stata la pazienza. Dopo gli improvvisi picchi di calore degli ultimi anni, la Togni era pronta per la vendemmia già il 15 agosto. Due volte ha fissato le date di raccolta, solo per annullarle all’ultimo momento, quando nuove analisi mostravano che la maturazione non era ancora ideale. La vendemmia è infine iniziata alla Philip Togni Vineyard il 2 ottobre – una grande differenza rispetto al 2022, quando era cominciata il 23 agosto. Con il progredire della stagione di raccolta e le temperature ancora stabili, la possibilità di pioggia diventava una preoccupazione, dato che l’uva sarebbe rimasta a maturare fino a metà ottobre o oltre, a seconda del sito. Anche questa volta, però, la pioggia non è arrivata. “È stato tutto perfetto”, ha dichiarato Mike Smith, enologo di Myriad, notando che, sebbene le condizioni del 2023 fossero insolite rispetto alla storia recente, in molti modi rappresentavano un ritorno a una normalità più antica. “Nessuno sotto i quarant’anni ha probabilmente mai visto un’annata così,” ha detto. “Sono più abituati a caldo e siccità.” Smith ha iniziato la raccolta per Myriad il 5 ottobre, circa tre settimane più tardi rispetto alle annate recenti. Si chiede, tuttavia, se altri produttori non abbiano iniziato troppo presto – un dubbio condiviso da Kaplan, che ha notato una mancanza di densità al centro del palato in alcuni vini, forse frutto di decisioni prese seguendo troppo il calendario, viste le tendenze recenti. In alcune tenute la raccolta era ancora in corso ai primi di novembre. Da Colgin, Bernardi ha dichiarato che la loro pazienza è stata premiata: “Quando abbiamo vendemmiato, sentivamo che ogni vite era al massimo di ciò che poteva dare. L’allineamento tra zuccheri e composti fenolici era fenomenale.” Ha aggiunto che, dopo la raccolta, le foglie sono subito ingiallite, segno che la vite aveva completato il ciclo vegetativo. Non ci sono state preoccupazioni per le rese – l’abbondante acqua e la stagione fresca non le hanno ridotte, e la maggior parte dei produttori ha riportato quantità superiori alla media, soprattutto sul fondovalle. La qualità dell’uva è stata uniformemente eccellente, con acidità naturali e tannini abbondanti. Smith ha elogiato il colore e la densità dei 2023, sottolineando che l’estrazione è stata rapida e la fermentazione regolare. Kaplan ha invece dovuto prestare attenzione a mantenere corpo e struttura nei vini, gestendo le fermentazioni per bilanciare frutto e tannino. Molti produttori hanno anche lodato il profilo aromatico dei 2023. In annate più calde, come la 2022, molte note delicate tendono a svanire, ha spiegato Tony Biagi, enologo di Patria e Hourglass. Nel 2023, la combinazione di frutti rossi e neri, insieme a note floreali, ha dato vita a vini altamente profumati. Secondo Biagi, i 2023 offrono “potenza e finezza spettacolari”, con tutto ciò che serve per essere “un’annata superlativa” – vini capaci di invecchiare per almeno 30 anni. Ciò che potrebbe distinguere i vini del 2023 è l’alto livello di “finesse ed eleganza”, come ha descritto Andy Erickson di Favia. Pur ritenendo che il 2023 non sia la più “californiana” delle annate – almeno secondo gli standard moderni – i vini mostrano una qualità snella e aggraziata al palato, bilanciando potenza e grazia. Bernardi ha elogiato la “sensazione di leggerezza” dei vini di Colgin, qualcosa che, secondo lui, solo le annate più grandi riescono a esprimere. Confrontare il 2023 con altre annate risulta difficile. Più di uno, tra cui Matthiasson, ha detto che la stagione di crescita ricordava quella del 2011 – ma senza le piogge di ottobre che complicarono la raccolta di quell’anno. Lisa Togni ritiene che il 2023 sia un’annata classica di Napa, con condizioni moderate, che sembrano fresche solo in confronto alle annate torride più recenti. Kaplan paragona la purezza del frutto del 2023 a quella del 2018, ma ancora più evidente. “I vini saltano fuori dal bicchiere,” ha detto, “sono così profumati e aromatici.” Per Corison, l’altissimo livello qualitativo del 2023 ricorda il 2001, un’altra annata elegante che continua a evolversi con grazia. Ma il 2023 è davvero “l’annata del secolo”, come si mormora? Nel complesso, la qualità è molto alta. Dopo aver degustato decine di campioni da botte, è chiaro che nel 2023 era probabilmente più difficile fare un vino cattivo che uno buono.
 Anche se l’attenzione è già rivolta al 2023, diversi produttori hanno espresso dispiacere per la rapida svalutazione di altre annate, spesso trascurate per eccesso di semplificazione. La Wineburg di Quintessa ritiene che il 2023 sia senza dubbio un’ottima annata, ma che anche il 2022 lo fosse – ciascun anno ha la propria personalità e potrà attrarre palati diversi. Per Erickson, i vini nascenti del 2024 (un’annata che lo entusiasma particolarmente) saranno più tipicamente californiani, densi e potenti, mentre il 2023 sarà ricordato per la sua finezza e compostezza. Il 2023 è un’annata eccezionale – e i vini conquisteranno soprattutto chi ama uno stile classico. Grazie alla stagione lunga e fresca, molti – se non la maggior parte – dei vini mostrano una qualità bordolese, unendo il frutto puro californiano a freschezza, acidità e un corpo elegante e agile, con “una sensazione di leggerezza” come ha detto Bernardi. I tannini sembrano destinati a integrarsi perfettamente, e c’è una certa sobrietà nei vini che ricorda la Napa di un tempo. La qualità è molto più omogenea – in senso positivo – rispetto alle annate recenti più difficili, dove le differenze di terroir e di decisioni tempestive accentuavano il divario tra chi falliva e chi eccelleva. “Abbiamo visto così tante difficoltà,” ha detto Togni, riferendosi alle sfide del 2020 e 2022, “ma questa è stata una bella conferma che non tutti gli anni saranno difficili: il 2023 è stato un’annata classica, magnifica – un’annata da libro di fiabe.” Napa 2023: l’annata in sintesi Forti piogge invernali e primaverili hanno rifornito le riserve idriche, con una lunga stagione di crescita e una vendemmia tardiva Rese generalmente superiori alla media, soprattutto sul fondovalle Qualità ampiamente coerente in tutta la regione Stagione fresca con maturazione prolungata, che ha prodotto vini eleganti e raffinati Vini dal profilo aromatico intenso, acidità fresca e tannini fini, in uno stile classico che richiama la Napa di un tempo Un’annata eccezionale – una delle migliori, se non la migliore, della storia recente Tenete d’occhio le prime uscite dell’annata 2023 di Napa. Nel frattempo, leggete di più sulla California o esplorate tutte le attuali offerte di Napa.

Da quando l'uva è arrivata in cantina, i viticoltori di Napa hanno nutrito una certa fiducia per l'annata 2023, con voci di grandezza. Ora, con l'uscita dei primi vini dell'anno, scopriamo se l'annata è davvero buona come suggeriscono le voci.

Is 2023 the vintage of the century in Napa? We talk to Corison, Colgin, Arkenstone, Tony Biagi, Steve Matthiasson and more about the year and its wines 

Discover the wines of the 2023 vintage in Napa, California 

Napa 2023: resoconto dell'annata  

Think of the Golden State and you imagine sunshine, orange trees and top-tier surf. But this past week, I’ve seen crazy winds, dramatic (and welcome) rainstorms, below-zero temperatures and more snow than anyone in Napa has seen for 50 years. In a similar way, it’s all too easy to shoehorn the region’s wines. Big Cabernet. Buttery Chardonnay. Those, like the sunshine and surf, are the clichés. But there’s much more than cliché to California, an area as large as many countries, and the wines made here. Over 1,000 miles from north to south, with vineyards sitting at altitudes of 50 to over 2,000 feet, cooling influences from the Pacific and San Pablo Bay, complex ancient soils (up to 140 million years old)… California is far from simple. And you’ll find everything from Arneis to Pinot, Grüner Veltliner to Schioppettino. This week, we’ve been on the road, exploring Napa and Sonoma, talking to just a handful of the producers that have made California such a special place for wine-lovers. The scale of this landscape is grander, with a sense of space to breathe, the parcels of vines tucked in amongst hills and mountains, with the expanse of coastline just a short drive away. You can see why it was – and is – a land of promise.
 While Napa and Sonoma are firmly established as fine wine regions today, their history is comparatively short. George Yount (who gives his name to Yountville) is thought to be the first person to plant grapes for wine in Napa in the 19th century, while Charles Krug was the valley’s first commercial winery, founded in 1861 – closely followed by names such as Schramsberg, Beringer and Inglenook. By 1889 there were over 140 wineries in the area. But phylloxera struck, then Prohibition, and the thriving industry’s expansion was sharply curbed. Producers that survived that difficult period found loopholes in the law, such as unofficial home-winemaking kits and sacramental wine. After Prohibition’s repeal in 1933, it took time for the industry to find its feet. The Mondavi family – who bought Charles Krug – was integral to its development, but the focus wasn’t immediately on fine wine. Figures such as Georges de Latour, Louis M. Martini and André Tschelischeff started changing the story, but it was arguably Robert Mondavi – who struck out on his own to found the eponymous winery – who led Napa into a new era, championing it as a region that could compete with the Old World. Of course, the now legendary 1976 Judgement of Paris was the turning point. When California came out on top in Steven Spurrier’s blind tasting, the world took note. Soon the cult of Napa Cabernet was born, and as Parker’s scores swayed palates, prices soared. 
But it’s unfair to think of that as the region’s story – for there is much more to uncover beyond the sheen of those 100-pointers. While of course some producers come with the polish you might associate with Napa, almost every winery we’ve visited has been fast to focus on the vineyard, whisking us out to walk or drive through the vines. As an agricultural state (grapes – both wine and table – are only the second biggest crop here, following the dairy industry, and with almonds only just behind), farming is at the heart of its culture.
 And it’s ever more relevant, with the region at the forefront of climate change – as this week’s extraordinary weather conditions show. Drought is an ongoing challenge (although recent rains have replenished groundwater), and wildfires have stolen headlines – especially in the 2017 and 2020 vintages (expect much more from us on this soon) – ravaging vast swathes of land, the flames and the associated smoke taking both lives and livelihoods. Despite these challenges, there’s such excitement here – with an electric vitality to the industry. Land prices in Napa are enormous – over half a million dollars per acre for the best sites, and planting any additional land is almost impossible. But that isn’t stopping its evolution, with shifting farming, winemaking, varieties and styles as producers look to redefine modern Napa. Head west towards the Sonoma Coast, where the ocean breezes and fog are bone-chilling, and new frontiers are being forged. The skies here are moody, thick fog cloaking the view of this exposed area, but fields of sheep and cows are being replaced with vineyards as people push limits to create restrained styles, especially of Pinot and Chardonnay. 
We can’t thank producers who have swung open their doors to us enough. We’ve already had so many fascinating conversations about the trends and challenges in the region, about what people are doing in the vineyard and winery and why, and tasted some remarkable wines. Hundreds of thousands of people headed west in the 19th century, drawn to this corner of the land of opportunity. Many didn’t find their fortune in the Gold Rush, but this is still a place that holds such promise.  Reinvention and revolution is the Californian way, powered by a uniquely American entrepreneurship. Forget the scramble for treasure, today the bold and the brave are creating their own destiny – and it’s filled with hope.
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After a week spent touring some of Napa and Sonoma’s best wineries, exploring the Golden State and what makes it so special. Sophie Thorpe considers why – three centuries after the Gold Rush – California remains a land of opportunity

After a week of touring Napa and Sonoma, we consider how California wine producers are creating their own destiny – and exceptional wines

Wine’s land of promise – California

Land of promise: California

Politicians don’t always follow through on their promises but US President Franklin D. Roosevelt made good on one of his 1932 election pledges: repealing Prohibition just weeks before the start of 1934. After nearly 14 dry years, producing and drinking alcohol was once again legalised and revellers could happily toast the New Year.  For Californian winemakers, however, there was still little to celebrate. What had been a fledgling wine industry before 1920 had been left in tatters, the number of Napa wineries falling from 120 to less than a third of that. A long, bumpy road to Cabernet greatness was barely conceivable for those remaining with so-called Burgundy, Chablis and Claret making the running.  However, there were some bright notes. The region’s pioneer, Robert Mondavi, arrived in the Valley in 1936 and said that he was "tremendously impressed by what I called the big four of the California wine industry . . . Inglenook, B.V. [Beaulieu Vineyard], Beringer Brothers, and Larkmead" and allegedly bowed his head when he drove past the first two. It would be another 50 years before Bill Harlan bought his 240-acre property that became Harlan Estate, which would go on to craft the “single most profound red wine made not just in California, but the world” according to Robert Parker.  On the other side of the Atlantic, there was little to smile about in the 1930s either. France –and the world’s finest vineyards encountered the same malaise as the world’s economy but 1934 provided the one bright spot. Admittedly, the vintage didn’t quite produce the fireworks of 1928 or 1929, but it would be more than a decade until there was anything to match the 1934 vintage.   Among the recipients of a bountiful harvest was Burgundy. The late Henri Jayer –the man who converted an artichoke patch in Vosne-Romanée to the esteemed Cros Parantoux vineyard–said,“In Burgundy, it is a rare occurrence to see quantity happily associated with quality, as in 1999, 1959 and 1934.” Amid a depression, though, it wasn’t enough to simply make great wine; you had to sell it. In an effort to breathe life into the market, a fraternity known as the Confrérie des Chevaliers du Tastevin was established. Its founders declared “If our cellars are full, we must invite our friends to help us empty them.” Their evenings of Pinot-swilling bonhomie brought some cheer before they were brought to a halt by the onset of war in 1939. With little appetite for parties in the mid-thirties, long-term vision was required for the Champenois, too. The powers that be at Moët & Chandon stepped up to the plate, designating what was an excellent year for the region as only the third-ever vintage of its super luxury cuvée Dom Pérignon. The wine wouldn’t see the light of day until 1951, when the president of France, foreign kings and the future Pope Jean Paul XXIII saw off several of the 1,200 cases at various events.  It wasn’t just eastern France that enjoyed a break from the string of dismal vintages. A prodigious harvest in Bordeaux produced some muscular wines destined for the long haul. Their longevity remains evident to this day, particularly in magnum, and has been a pivotal vintage for Neal Martin, imbuing him with greater respect for Saint-Émilion property Cheval Blanc.  “The vintage that alerted me to the pedigree of Cheval Blanc’s old vintages is not the legendary 1947 nor the fabled 1921, but the 1934,” he explained in 2019. “This was several years after Albert Laussac Fourcaud passed away, having created a société civile between his children to ensure that the property would remain in his family. First poured at a remarkable tasting in London themed around that vintage, the 1934 Cheval Blanc lit up the evening”. The world might have changed in the last eight decades but some things, it seems, can be counted on to remain the same. Read more Editorial 

For the latest installment in our Vintage Series, we explore the 1934 vintage. A year that saw the US wine market begin its slow recovery after the repeal of the Prohibition Act and Europe finally ended a dismal streak, 1934 produced some of the finest wines in the pre-World War II era.

Exploring the 1934 vintage, when the US wine market began its slow recovery after the repeal of the Prohibition Act and Europe finally ended a dismal streak

Exploring the 1934 wine vintage

A year in wine: 1934

Anyone who’s had the misfortune of tasting a de-alcoholised version knows that alcohol is key to wine. Take it away and it leaves a gaping void in the glass – stripping the liquid of body and flavour. Those attempting to craft alcohol-free alternatives look to make up for its absence with sugar or flavourings, but the results don’t come close to the real thing. And of course the very fermentation process is key to complexity – there’s a reason we aren’t collecting single-site examples of even the finest raw grape juice. But alcohol’s a hot topic – and not just because of any health considerations. Trends and shifts in climate have seen the average ABV (alcohol by volume) inch upwards. Indeed, a report last year from Liv-ex suggested the average alcohol level has leapt almost an entire 1% for both California and Bordeaux since the 1990s. While once 14 or 14.5% might have been the purview only of the New World, it’s rapidly become the norm in Bordeaux. Rising temperatures are one element, as indeed is technology and know-how – harvesting cleaner, riper fruit and more efficient winemaking. Then, of course, there’s the fashion factor – the pendulum swing, arguably driven by Robert Parker, for bold, ripe, sweet and inevitably high-alcohol wines. “He loved that weight, that impression of sweetness,” Paul Hobbs tells me. “We jumped on the wagon – but we didn’t know what we were jumping on.” A cult name, Hobbs crafts some of Napa’s highest-scoring and most expensive Cabernets; indeed, Parker named him his Wine Personality of the Year twice. Born in New York State, the Davis-trained winemaker founded his namesake estate in 1991. He’d started his career at Robert Mondavi (arriving in 1977), working at Opus One and Simi before setting up on his own, with a flurry of personal projects and list of consultancies that has grown ever since. He openly admits that he got caught up in “Parkerisation”, crafting big, bold wines – no great surprise given the scores, and sales, that followed for those who did. But he’s been pulling back in recent years, and has never quite fit the cookie-cutout for the cult Cabernet crew. Ever since he first started making his own wines in the 1990s, he’s championed native yeasts (relatively radical at the time), and no fining or filtering. While he embraces oak, he’s always been aware that it’s the quality of fruit in the vineyard, preserved by operating a flawlessly clean winery, that is key to producing fine wine. Make no mistake that Hobbs makes rich, plush wines – and the alcohol levels certainly don’t sit at 12.5% – but for him there is much more to alcohol than one number. “I didn’t give much thought to it in the beginning,” Hobbs says. “And there wasn’t really much reason to.” When he was at Mondavi, the wines tended to sit at 13.5% – but then they started to go up. “There was a time when 16% was normal,” he confesses with some amazement. “Some of these wines were difficult. They didn’t age. They would get tired,” Hobbs says. “But all that took us time to learn – no one had ever been in that domain before.” He notes that there was “a backlash” in the British press against wines that didn’t please the palates of “the Hugh Johnsons, the Jancis Robinsons and Anthony Roses”; a response he clearly feels was a little unjust. “It’s far more complex than a simple number,” he says. “15 isn’t always 15.” And it’s true – alcohol doesn’t feel the same. How many times have you looked at the label of a wine and been surprised – either for better or worse? Alcohol is one element working in tandem with a wine’s body, concentration and flavour complexity – and there’s no easy figure to tell you how it integrates with these other components. But there’s another key reason why the same alcohol level can seem so different: the nature of the alcohol. The main alcohol in wine is ethanol (a molecule with two carbons), however fermentation produces other types of alcohols – specifically superior or higher alcohols. Often known as fusel oils – from a German term “Fusel” which is colloquial for low-quality booze – these alcohols have three to six carbons in their molecular form and are significantly more viscous (hence “oils”).  While ethanol is pure and relatively neutral, these heavier superior alcohols can – in low volumes – bring flavour, texture and interest. “It’s what makes something more than vodka,” Hobbs explains. Hexanols can add herbaceous aromas; 2-phenylethanol gives a rose-like scent. But they’re also associated with headaches and hangovers. In the world of spirits, these fusel oils are what runs out of the still last – forming the “tails” of distillation, which are used to varying degrees depending on the type of spirit being produced. “Alcohol is alcohol? Well, yes and no,” says Hobbs. It's high numbers of these superior alcohols, he believes, that can make one 15% wine feel clumsy and lumbering, while another – with lower fusel oil levels – can carry the same ABV with ease. The production of these superior alcohols depends on many things – yeast strain, temperature, oxygen availability and acidity. In general, red grapes produce more of the compounds (which is partly why spirits tend to use white grapes as their base). But Hobbs thinks it ultimately comes back to the vineyard: he’s started noticing that if berries are heat-damaged, they produce more superior alcohols. “Our goal is to keep these superior alcohols as low as possible – and that’s just about harvesting not sun-damaged fruit,” Hobbs explains. Under the warmth of the Californian sun, it’s common to get sun damage early in the season, but shrivelled berries tend to fall off nascent clusters of their own accord; more concerning is fruit that can be damaged internally and then won’t go through véraison, which needs to be sorted out. Late in the season, Hobbs and his team look to walk through the vines and cut off any “shoulders” (the side cluster at the very top of a bunch of grapes) that have been exposed. With global warming, this is an increasing threat – and an element of climate change that is only now being considered. If grapes are sunburnt or shrivelled, they tend to struggle with fermentation, and the stressed yeasts produce more of the superior alcohols. “The wine is going to be fat and heavy on the palate,” says Hobbs. “You can lower the alcohol by adding water – but it doesn’t change its personality.” If the fruit is in good shape – he says – you simply don’t have that issue, even at 15.5%. And those wines, provided they’ve got the requisite balance, age amazingly. Rajat Parr (star sommelier turned winemaker) and Jasmine Hirsch (of Hirsch Vineyards) founded In Pursuit of Balance (IPOB) in 2011 to champion lighter wines that they felt “weren’t chasing after ratings from wine critics”. These “new California” wines (Jon Bonné published his book The New California Wine in 2013) tended to have lower alcohols and less oak – following the swing of the pendulum back the other way; an anti-Parker effort in many ways. I attended the last London IPOB tasting in 2016, catching the crest of the wave as the movement called it quits – feeling they’d achieved their aim of building the reputation of an alternative California. Paul Hobbs arguably sits at the opposite end of the California wine spectrum (“Should all wines be 13.5%?” he says to me, “Why is that the magic number?”) – but philosophically, they’re surprisingly aligned. It’s not about the number, it’s about the balance – and Hobbs, like any posterchild of the new California movement, will tell you that the secret lies in the vineyard. The challenge is to farm and pick the perfect fruit – to find the sweet spot between flavour, sugar and phenolic ripeness. As Hobbs says to me, “That’s the dance between man and nature.” Forget the maths; this is farming. A note on the numbers Strictly speaking, the alcohol level on any label isn’t exactly what’s in the bottle. For wines sold in the EU and UK (both those made here and imported), producers are given 0.5% leeway – meaning that what’s on the bottle is generally reflective of its contents. In the US and Australia, however, wines sold domestically can differ by as much as 1.5% from the label – meaning a wine labelled as 14% could be anything from 12.5 to 15.5%. Browse all Paul Hobbs listings or discover more Editorial

With climate change and the influence of Robert Parker, it’s undeniable that we’ve seen a rising tide of alcohol levels. But there’s much more to the conversation than a simple number – as we discovered tasting and talking with Paul Hobbs, one of Napa’s leading names

The Napa winemaker Paul Hobbs on how we perceive alcohol in wine and why the alcohol level on any label isn’t exactly what’s in the bottle. 

Paul Hobbs on alcohol in wine 

The nature of the numbers: Paul Hobbs on alcohol

A marzo di quest'anno, Opus One ha annunciato l'assunzione di Meghan Zobeck come Direttrice della Vinificazione. È il primo passo nella transizione, poiché l'enologo di lunga data Michael Silacci intende lasciare l'azienda nei prossimi cinque anni. Silacci è in Opus dal 2001 ed è oggi una vera e propria leggenda nella valle: trovare un successore adatto non è un compito da poco. 
Zobeck non era necessariamente la scelta ovvia. Ha scalato rapidamente i ranghi dell'élite vinicola di Napa, ma è entrata nel mondo del vino solo nel 2012. Quel passaggio è stato un atto di fede per Zobeck, un atto insolito per qualcuno immerso nel mondo della NFL. 
Zobeck è cresciuta a Greeley, in Colorado, "una città di contadini", come lei stessa l'ha definita, ma che per puro caso era anche il luogo in cui i Denver Broncos tenevano i loro ritiri di allenamento ogni anno. Durante il liceo, ha trascorso le sue estati lavorando per la squadra, come facevano molti locali. Frequentò l'università (poi la facoltà di medicina), ma continuò a lavorare per i Broncos, passando a tempo pieno mentre studiava per gli esami MCAT. 
Durante l'ultimo anno di università, fece uno stage con la squadra, lavorando con gli osservatori e sedendosi nella "war room" il giorno del draft. "Adoravo l'azione, il ritmo veloce", dice. Più o meno nello stesso periodo, si rese conto che la medicina non faceva per lei: accettò invece un ruolo nella negoziazione dei contratti dei giocatori per i Broncos, diventando una delle poche donne a ricoprire quel ruolo, e ne fu entusiasta. Fu un viaggio di fine settimana a Los Olivos, nella Santa Ynez Valley, a far nascere il suo interesse per il vino e, più specificamente, per la vinificazione. Tornata a casa, trovò un annuncio su una rivista locale per un negozio di birra artigianale, che offriva la possibilità di acquistare uva durante la vendemmia. Ben presto si mise a sperimentare, fermentando lotti di vino nella sua cantina e organizzando feste di imbottigliamento con gli amici. "Ho visto come unisse davvero le persone", dice. Ha viaggiato in altre regioni vinicole e si è innamorata del modo in cui il vino combinava scienza, creatività, storia e comunità. La NFL le era stata utile, ma era giunto il momento di fare il grande passo e lasciarsi i Broncos alle spalle. 
Ha prodotto la sua prima vendemmia a Clos Apalta nel 2012 e non si è più voltata indietro: ha vendemmiato in Piemonte, Bordeaux e Barossa, prima di concentrarsi su Napa, prima presso Stag's Leap Wine Cellars e Screaming Eagle, poi ha accettato un incarico con il consulente di punta Philippe Melka. Più recentemente, Zobeck è stata enologa presso Burgess Cellars, dove ha avuto carta bianca per plasmare i vini, dalla vigna alla cantina. 
Zobeck ha incontrato per la prima volta Michael Silacci al Premiere Napa Valley, il suo primo a mostrare campioni di botti di Burgess. Silacci è venuto ad assaggiare e poi, in una chiara dimostrazione di approvazione, ha continuato a consigliarle altri. Zobeck si stava concentrando su uno stile di vino più fresco, un ritorno al Burgess di un tempo, ma stava anche lavorando a un approccio rigenerativo in vigna, e presto scoprì che il team di Opus One stava conducendo esperimenti simili. Lei e Kimberlee Marinelli, Assistente Enologo e Viticoltrice di Opus One, si misero in contatto e iniziarono a discutere di tutto, dagli impollinatori ai fermenti autoctoni. Zobeck fu colpita dalla chiara mancanza di compiacimento da parte di una proprietà che non aveva bisogno di dimostrare ulteriormente il suo valore. Non immaginava che Silacci stesse osservando ciò che stava facendo con particolare interesse, e decise che avrebbe potuto essere l'erede al suo trono. 
"È un lavoro che non penseresti mai, nemmeno tra un milione di anni, di poter trovare", racconta Zobeck del momento in cui le fu proposto di diventare Direttore della Vinificazione di Opus One. Non avrebbe certo rifiutato un'opportunità del genere, soprattutto quando avrebbe avuto la possibilità di lavorare con Silacci per diversi anni. Zobeck raccoglierà l'eredità di Silacci presso Opus One, una tenuta in continua evoluzione durante il suo mandato. L'agricoltura biologica è stata la norma presso Opus per oltre due decenni, sebbene l'azienda abbia richiesto la certificazione solo nel 2021. Per oltre un decennio, Silacci ha sperimentato la biodinamica, ma ha scoperto che le viti erano diventate troppo vigorose. Ha abbandonato l'approccio prima di lanciarsi nell'agricoltura rigenerativa a partire dal 2022. L'azienda ora utilizza colture di copertura permanenti tra le viti, contribuendo ad abbassare le temperature nelle chiome, trattenere l'acqua nei terreni e allungare il periodo di maturazione, senza aumentare i livelli di zucchero. Silacci ha sperimentato l'agricoltura a secco dal 2007 e ha ridotto l'irrigazione in tutta la tenuta, sebbene per ora rimanga essenziale. Il team spera, tuttavia, di poter avviare un nuovo sito di coltivazione a secco a Oakville una volta che le viti saranno stabilizzate. Tutto questo lavoro si riflette nei vini prodotti oggi. 
"Opus One non è la Napa stereotipata dei primi anni 2000", sottolinea Zobeck. "È uno stile fresco, e per mantenerlo dobbiamo coltivare in modo diverso". Silacci è famoso per aver detto di non voler lasciare le sue impronte nel vigneto o le sue dita sul vetro, ma Zobeck nota come la sua influenza su Opus One sia evidente nel corso degli anni, soprattutto a partire dal 2004. Dal 2019, tuttavia, Ritiene che il vino si sia evoluto ulteriormente, con una maggiore trasparenza del sito. L'annata 2023 è appena stata imbottigliata con una modesta gradazione alcolica del 13,5%, indicativa dell'attuale approccio della tenuta, che intende proseguire. 
Silacci prevede di rimanere per almeno tre anni, lavorando al fianco di Zobeck come enologo capo. Un periodo di transizione di questa durata testimonia la visione a lungo termine di Opus One, che non guarda solo alla prossima annata, ma al prossimo decennio e oltre. L'entusiasmo di Zobeck per il ruolo è evidente, così come la sua ammirazione per la squadra attuale. Come nella NFL, un buon capitano è fondamentale, ma ci vuole più di un giocatore per vincere una partita, e Zobeck completa una formazione già impressionante. È un passaggio di consegne davvero notevole. 
L'annata 2022 di Opus One uscirà il 1° settembre 2025. Sfoglia tutti gli annunci attuali di Opus One o scopri di più sulla California

Originariamente una joint venture tra Robert Mondavi e Ch. Mouton Rothschild, Opus One è una delle tenute più famose di Napa e ora ha un nuovo Direttore della Vinificazione. Abbiamo incontrato Meghan Zobeck per saperne di più sull'ex campionessa della NFL che ha preso il posto di Michael Silacci.

Meeting the new woman at the helm of Napa’s Opus One – Meghan Zobeck, who is taking over from Michael Silacci to make some of the valley’s most famous wines 

Opus One’s new Director of Winemaking: Meghan Zobeck 

Scelta del draft: Meghan Zobeck dell'Opus One

When Au Bon Climat founder Jim Clendenen unexpectedly passed away on 15th May 2021, aged just 68, there was an outpouring of sorrow. FONDATA’s Gavin Lucas considers how the one-of-a-kind bon vivant shaped Santa Barbara and California’s wine scene today

Gavin Lucas looks back on the life and times of Jim Clendenen, California’s original wild boy and a pioneer of fine Chardonnay and Pinot Noir in Santa Barbara

The legacy of Jim Clendenen – Au Bon Climat

The legacy of Au Bon Climat’s Jim Clendenen

Mi sono seduto per la prima volta con l’enologo Chris Phelps quasi due anni fa, immergendomi nel suo straordinario percorso. Avendo lavorato in realtà come Dominus, Caymus e Inglenook, fu il caso – o forse il destino – a portarlo a fondare la sua etichetta, Ad Vivum, nel 2007. 
 Era seduto sopra un tino di frutta appena in fermentazione quando fu colpito da un “coup de foudre” – innamorandosi all’istante di Sleeping Lady Vineyard, un sito coltivato dal suo caro amico Larry Bettinelli. Comprò il mosto a metà fermentazione e da allora lo fa a ogni vendemmia. 
 I blocchi specifici che riempivano quel tino si trovavano contro i Mayacamas, proprio nella parte più alta del vigneto, che è il sito più meridionale di Yountville. Qui le viti sono riparate dall’ardore del sole pomeridiano, preservando acidità e aromi nel frutto, mentre un flusso d’acqua sotterraneo permette al sito di prosperare anche negli anni più siccitosi. Ogni anno, da soli 1,5 acri di Cabernet Sauvignon, Phelps crea un’altra espressione del sito. 
 Le parcelle esatte sono cambiate leggermente nel tempo. Nel 2007, le viti erano tutte Clone 191 – il clone che riteneva migliore per il sito, ma il blocco aveva bisogno di essere reimpiantato, quindi si iniziò a usare frutta da una parcella adiacente, piantata con Clone 7. Dopo un “balletto attentamente ponderato” bilanciando le due parcelle, l’annata 2024 segna il ritorno all’uso esclusivo della frutta dalla parcella originale, ora reimpiantata con Clone 191 (e noto come Clone 34, geneticamente identico al 191). 
 Phelps ha lasciato il suo lavoro quotidiano (lavorando per altre cantine) alla fine del 2023, potendo finalmente concentrarsi esclusivamente su Ad Vivum, oltre a un progetto più recente con il figlio Josh (Coil Wines). Sebbene avessimo già degustato le uscite correnti, all’inizio di questo mese abbiamo potuto assaggiare per la prima volta un trittico di vecchie annate. Hanno confermato quanto sia speciale questo sito, così come il talento di Phelps nel saperlo catturare in bottiglia. 
 Le tre annate che abbiamo assaggiato sono state 2016, 2017 e 2018 – tre anni molto diversi a Napa. Tutte e tre, tuttavia, riescono a combinare grande freschezza con la lucidità di Napa – dando vita a vini sorprendentemente già approcciabili. 
 2016 Ad Vivum 
 Con le parole di Phelps, il 2016 è stata “un’annata classica di Napa”; il clima è stato caldo a fine giugno, permettendo alle viti di concentrarsi sulla maturazione del frutto, mentre l’autunno ha portato temperature più fresche. Phelps ha vendemmiato dal 7 ottobre, fermentando in rovere francese nuovo al 21% (il resto in acciaio inox), con un totale di 19 giorni sulle bucce prima dell’elevage di 18 mesi in rovere francese nuovo al 65%. Ha sempre avuto “un’armoniosità”, ha osservato Phelps, e ciò è certamente vero degustando il vino. 
 Il naso offre frutto scuro dolce, purezza di grafite e accenni di fiori sollevati oltre a una vena erbacea. Il palato è lineare e puro, con acidità salivante e un cuore saporito di frutto maturo, dolce cassis e tannini maturi che forniscono una presa asciugante sul finale. Sebbene sia il più vecchio di questa mini-verticale, sembra quasi il più giovane e beneficerà certamente di ulteriore tempo in bottiglia. Un blend di 56% Clone 7 e 44% Clone 191 di Cabernet Sauvignon. 
 2017 Ad Vivum 
 L’annata 2017 è una di quelle che saranno ricordate per sempre per gli incendi a Napa, sebbene fortunatamente Ad Vivum non ne sia stato colpito. Dopo un germogliamento precoce, la stagione di crescita è stata segnata da tre ondate di calore – a metà giugno, a fine agosto e a metà settembre. Avere un sito più fresco, ombreggiato dal sole pomeridiano e con sufficienti riserve idriche è stato fondamentale per Phelps. Ha vendemmiato dal 5 ottobre, portando in cantina 55% Clone 191 e 45% Clone 7 di Cabernet. È stato fermentato in rovere francese nuovo al 25%, trascorrendo in totale 20 giorni sulle bucce (Phelps ha notato quanto facilmente colore e tannino arrivassero in questa annata calda), prima di essere elevato 17 mesi in rovere nuovo al 70%. 
 Il naso qui è brillante e profumato, combinando frutto scuro dolce – ciliegie nere e ribes nero – con slancio floreale e mina di matita. C’è una splendida purezza del frutto, che prosegue su un palato denso ma fresco, mostrando una succosa eleganza. C’è una masticabilità appagante nei tannini, fermi ma vellutati, che incorniciano le ondate di frutto che scorrono verso il lungo finale salino. Invitante e goloso, è difficile resistergli ora. 
 2018 Ad Vivum 
 Sebbene l’annata 2018 a Napa sia iniziata con un germogliamento relativamente tardivo, temperature più fresche e uniformi hanno dato vita a una stagione di crescita lunga, producendo rese relativamente abbondanti – eppure senza alcuna diluizione, grazie alla stagione prolungata. Phelps ha vendemmiato dal 17 ottobre, con il blend che è tornato verso circa due terzi di Clone 191 di Cabernet dalla parcella originale e un terzo di Clone 7. Fermentato in rovere francese nuovo al 25%, Phelps ha lasciato il 2018 sulle bucce per 23 giorni – leggermente più a lungo rispetto ad altre annate, ritenendo che il frutto strutturato avesse bisogno di più tempo per raggiungere il suo potenziale, cosa rispecchiata da un’elevage di 20 mesi in rovere nuovo al 75%. Phelps osserva quanto generoso sia stato questo vino fin dall’inizio, ma quanto abbia sviluppato ulteriore opulenza e profondità in bottiglia. 
 Questo è un vino splendido: il naso è intenso, esuberante di frutto scuro e con una soddisfacente vena erbacea. Sebbene il ribes nero e la prugna nera siano splendidamente maturi e setosi, c’è un’acidità brillante che porta una freschezza meravigliosa – per un palato agile e vibrante. I tannini sono rotondi e levigati, conferendo struttura senza sforzo, mentre c’è un bordo salino e saporito nel lungo finale. Esplora tutte le offerte attuali di Ad Vivum, inclusa una cassa mista di 2016, 2017 e 2018, o leggi di più sulla California

Dal 2007, Chris Phelps lavora con appena 1,5 acri di Cabernet Sauvignon nel vigneto Sleeping Lady a Yountville. Il vino che ne è nato è Ad Vivum, una splendida espressione di questo luogo speciale. Abbiamo incontrato Phelps per una degustazione in miniatura del progetto.

Exploring Chris Phelps’s Ad Vivum Napa Cabernet Sauvignon wine from Yountville’s Sleeping Lady Vineyard through three vintages, 2016, 2017 and 2018 

Tasting Ad Vivum Napa Cabernet Sauvignon – 2016-2018 

Degustazione Ad Vivum: 2016-2018

Much has been written about Promontory. The property was discovered by Bill Harlan in the 1980s, hidden behind a ridgeline in Oakville, and its story – one that almost feels mythical – has been told many times (including by us).   Those stories, however, don’t prepare you for standing in this vineyard. “The territory”, as the team refers to the estate itself, is totally hidden from view – a good 10-minute drive from the winery (which looks out over the Harlan Estate vineyards), tucked to the south, over the hills from Dominus, found via a warren of dirt-tracks that cut through the forest, until – suddenly – you’re there.  Perched at the top of just one of the various parcels of vines, Cory Empting (Managing Director of Winegrowing) stops the truck as our jaws drop. We scramble to get out, blinking in the peaceful sunshine that beats down on an enchanting, untamed idyll. “There’s a quality to the silence out here,” Empting says – breaking the quiet that we’ve been soaking in. As the crow flies, Promontory isn’t far from Harlan Estate – yet the difference is, in Empting’s words, “kinda scary”. Fault lines make for a unique mix of soil types – sedimentary, volcanic and, most importantly and rare for Napa, metamorphic. Plots of vines are sparsely scattered across the wild, forested mountains, the undulating, varied slopes offering an almost endless range of aspect and microclimate. (As one alum told me, laughing, “It’s beautiful – but a total b**** to farm.”) The elevation is higher than at Harlan Estate – with the lowest point at Promontory the equivalent altitude of the highest point at its sibling property – making it generally cooler. Harlan Estate is manicured, while Promontory has a rawness about it – a sense that it isn’t, and never will be, totally domesticated. It's taken a long time to get here. Bill Harlan’s quest to create a Californian rival to Bordeaux’s First Growths (started in the 1970s) had kept him hunting for land, enough that would allow him to produce the same volume as the Left Bank’s most grandiose addresses. He bought his first 40 acres in 1984, the founding stone for Harlan Estate, and has continued tracking down special vineyards ever since, first for Harlan, then BOND and Promontory.  Although he’d first identified the location for Promontory in the 1980s (while hiking through this part of the valley), the property was developed by Girard Winery in the meantime, and he didn’t have the chance to buy it until 2008. Bill got a call that it was going on the market – and that’s when he rang up Will (his son, now Managing Director for the Harlan family of wineries) and Empting. “Then the economy started tanking,” Empting says – and suddenly the property that had been a stretch became increasingly affordable as its price dropped. The decision to buy was easy. But there was no reference point for the project, no historic bottlings to judge against, just a feeling about the place, and its potential.  “It was the wild west when we got out here,” Empting explains. The vineyard was in terrible shape – trees had been cut down and left where they fell. There were weeds growing taller than the vines. It had been left to become truly feral. There were even end-posts suggesting a row of Pinot Noir that was clearly Cabernet Sauvignon, while there were Cabernet Sauvignon clones that looked like nothing they’d seen before.  They committed to farming the site for three years before changing anything, so they knew what they were dealing with. But it soon became clear that the soils had been destroyed, robbed of organic matter, the vines emaciated, producing truncated shoots.  To date, they have replanted half of the 80 acres of vines. And the redevelopment work has been substantive, including un-doing terracing. They worked with superstar consultant agronomists Claude and Lydia Bourguignon (the first in the US to do so) to help regenerate the soils. But the philosophy here is ultimately Fukuoka-inspired: “How can we do one thing less? … That’s our church,” says Empting.  Fifteen acres have been replanted, rather unconventionally for Cabernet Sauvignon, untrellised – goblet-trained. This is partly because the metamorphic rock is so fractal that a unified hedge just didn’t make sense. Air flows in all directions, the sun hits each vine differently, they’re resilient for dry-farming and it allows the team to pick and move in any direction in the vineyard. Even more unusually, they’re planting rootstocks by themselves, grafting only once they’re three or four years old – when deemed ready. “I’m a Montessori parent,” Empting jokes, referencing what he describes as his “mixed pace” vineyards, letting each vine develop at its own rate. And this sense of responding to and working with, rather than against, the vines is key.  In a move that’s incredibly rare for hillside or mountain sites in Napa, their goal is to dry-farm. While the inspiration might have been wine quality (looking for more concentrated, balanced fruit), it is now ultimately about long-term survival in a changing climate. “We’re not going to have the water,” Empting says frankly. Convention suggests that each vine in the ground acts like a straw, sucking water from the soils. But, as Promontory have proven through experiments, it is not that simple – relating to the number of leaves on the vine, as well as its age, among other things. In fact, they have found that higher density plantings are easier to dry-farm.  To help avoid irrigation, they focus on respecting the vine energy – that means they don’t hedge or leaf-pull, and will only green harvest if they absolutely must (when nature throws them a curveball) – pruning to what they want the vine to grow, avoiding wasting any inch of the plant’s efforts. The resulting clusters are tiny, with yields reaching a maximum 38hl/ha, but often a mere 20hl/ha.   Cover crops and permanent grass cover, as well as grazing, have been key to repairing the soils. They’re still having to use a little bit of compost in some areas, Empting confesses almost guiltily – something he considers “a sign of imbalance”. Animals are a key part of “holistic farming”, Empting says, and he’d love to have chickens in the vineyards – “If the coyotes didn’t see them as a free meal,” he jokes. They’ll bring sheep in to graze early in the season, so that the cover crop has time to grow back. The regrowth can then be trampled naturally by the vineyard team as they work – operating as a rustic form of crimping or rolling. This aids water retention, the natural layer of “thatch” keeping the soils cool and preventing evaporation. If it’s not already clear, this isn’t a standard vineyard or estate – or, more accurately, family of estates. This is all part of Bill Harlan’s original vision, a 200-year plan to create a wine dynasty to match those of the Old World. The level of detail, effort and expense that goes into BOND, Harlan and Promontory is remarkable. They have a team dedicated to Research & Development – ensuring that they are at the forefront of viticulture and vinification, pushing any and every boundary in the name of quality.  One key element of this is their Vine Masters program – elevating what might historically have been seen as blue collar work to the skilled profession it really is.  The large majority of vineyard workers in California are of Mexican origin (some statistics suggest as high as 95%). There’s reason for this, with a long history of seasonal-working that stretches back to 1917, yet there’s often a division between vineyard and winery – a division that the family is working hard to broach.  The Vine Master program was first introduced at Harlan. The principle is not alien – a “Vine Master” is dedicated to a specific block, giving a sense of ownership, yet also meaning they know that block inside out. But – and this is what sets Harlan apart – to earn that responsibility (and it is a significant responsibility when the wine sells for upwards of £800 a bottle), the Vine Master has to go through a modular education program (developed in-house), passing both theory and practical exams. The Vine Masters can then take ownership for a block, and have the freedom to do what is required for their plot of vines. In what feels distinctly Californian and ever-so-slightly hippy-inspired, they’re also encouraged to, for example, hike through the surrounding hills, helping them think laterally.  Empting explains how one of the Vine Masters was sitting in his block on a break, looking up at a tree, and realised that trees naturally find their balance by dividing the diameter of their trunk fairly at each divide – only if there is sufficient girth will it split. He took this concept and pruned his block accordingly, only leaving multiple shoots where the vine could handle it. In the dry 2020 vintage, his vines were the only ones that reached the top wire (of the trellis), with the others all struggling. His methodology was rapidly implemented throughout the vineyard. The vineyard supervisor is more like a coach than a manager, and the vineyard work is more integrated with the final product. For example, the pruning process starts with tasting the wine from the previous vintage, so they can align on the energy of the vines and any challenges, before taking their shears to the vine. “You can’t prune a vine without thinking what it tastes like,” Empting says – yet that is what many vineyard workers will have to do.  This responsibility isn’t something that everyone wants – but skilled labour is, along with water, key to the future in California.  Empting expects the valley floor to be entirely mechanised in the imminent future – and if that’s the case, the question is: “How are you going to retain the talent that you have – and gain more?” he says. While originally they didn’t want to give each Vine Master too much land, they’ve found they work almost 40% faster than a crew – able to work more efficiently, doing what is needed when it’s needed, saving on the transition time within plots.  There’s been a constant evolution in the winery as well, inevitable as they learn more about this remarkable place, and realise the potential of its terroir. The challenge is to tame the significant phenolics – and the shift here fits with that familiar pendulum swing, with a move towards elegance. As with the vineyard, the goal is to do less not more – something that isn’t always easy. “We wait all year to turn grapes into wine,” Empting explains – the excitement sometimes becoming overzealous.  While soil health was, as Empting describes it, “the first hurdle”, David Cilli (Winemaker at Promontory) had been doing much in the winery, gradually dialling in the extraction, with shorter macerations and cooler temperatures (with a maximum of just 26˚C), halving the number of pump-overs. The wine is now mainly fermented in concrete (all with indigenous yeast) and aged in Stockinger foudre – ranging in size from 10 to 60 hectolitres – for 30-36 months.  When they first made the wine, they thought that they’d want and need to separate out the different blocks – since they had such varied profiles. They decided they were willing to sacrifice as much volume as was needed to make the best wine possible for the first vintage, and set about making various micro-blends, as well as one that included everything. The whole was so much more – its harmony so much more appealing. “They need each other, in a weird way,” Empting explains.   Until now, the wine has been made exclusively with the old vines, those that were planted when they arrived, with the new vines not yet mature enough (the young-vine fruit has instead been used for The Mascot). The 2022 will be the first vintage to include some of their earliest replants, which are now 10 years old.  While shifts here have mainly been gradual, 2020 was a significant moment. The first wildfire took hold on 18th August, although it was across the valley – far enough away for there to be no urgent threat, but the team was (especially with 2017’s fires fresh in their memory) on edge. Empting recalls spending time driving up and down the valley watching what was happening. They grouped together and decided to start picking on 22nd August – a good two weeks earlier than normal. They weren’t certain it was the right decision, but also weren’t prepared to risk everything to wait. Two weeks after they finished, the Glass Fire swept through the valley. Anyone that hadn’t picked was at significant risk of smoke taint.  Nature might have forced their hand, but it was a push they needed. The resulting wine stunned them all. It’s a world away from the high-octane reds that Robert Parker favoured – and any Napa stereotype. This is a bright, pure and elegant expression of site that sits at around 13%. And while the team’s fear was that it might not have the tannic depth of a true “Grand Cru” – a wine destined to be cellared – that is simply not the case.  They realised they didn’t need those extra two weeks on the vine for phenolic ripeness. The dry growing season had meant the vine only had a small crop to ripen, helping them out, but the year totally shifted their perspective. In 2021, they picked on the same date. In 2022 – a noticeably hot and dry year – they picked even earlier.  Tasting the 2020 alongside the 2016, ’17 and ’18, the difference is drastic – although the progression is there in the earlier vintages. It marks a sea-change for the estate – one that may divide pundits. But the 2020 matches their vision of this place: while they think of Harlan as a wine of gravity, Promontory is a wine of “lift”.  The Harlan family’s wines don’t come cheap – but you aren’t just paying for good wine (and it is, undoubtedly, very good). Yes, it’s a smart winery, with the very best equipment. But the money isn’t going on new barrels and expensive consultants each year, it’s being invested in the people, place and practices that guarantee its legacy. The 2018 has only just been released, so the 2020 won’t hit the market until 2025. But like anything these visionaries do, it will be worth waiting for. Tasting Promontory 2016 Promontory Will Harlan describes the 2016 vintage as one of the first wines that they felt allowed them to compete on a global stage. Still incredibly youthful, it’s somehow almost approachable yet has significant structure behind. There’s a plush richness to the fruit, a firmness and depth to the tannins that needs time, yet a vibrancy too. It’s just starting to become more supple, yet the phenolics grip onto the finish, drying it out very slightly. The fruit is starting to mellow, mingling with savoury tones. Significantly more weight than the other vintages. 2017 Promontory Deeper and darker, the 2017 shows an intensity and firmness – its framework almost aggressive after the 2016. The structure is boxy, yet also refined, and starting to meld together with the bright, fresh fruit. With air the wine shifts from black to red fruit, relaxing into itself. Fruit reverberates on the mouth-watering finish. 2018 Promontory The 2018 confirms the direction of change. Although on paper the wine looks similar to 2016 (in terms of analytics), this is significantly different – offering a transparency and vibrancy. Empting describes it as “athletic” – a fitting way to describe a wine that feels lithe. The fruit sits on the red spectrum, with super-fine velvet tannins forming a chiselled, linear structure. There’s a lift and florality to the nose, complementing the long, pure palate. 2020 Promontory This is a wine of amazing precision and perfume. A pivotal vintage for the estate, picked two weeks earlier than normal and before fires swept through the valley, it’s a stunning wine. Extraction was gentler and the alcohol is around 13%. It’s a wine of brightness and texture – a fine, chalky, powdered grip of tannins that complements the seamless fruit. The nose shifts with florals and earthier minerality, a savoury, saline edge to the crunchy fruit and juicy acidity. There’s purity and delicacy, with a finesse that is truly remarkable. Find out more about Promontory, or read more Editorial

The Harlan family isn’t like other families. We spent time with Will Harlan and Managing Director of Winegrowing Cory Empting to talk about Promontory, the vision and philosophy behind it – and why the 2020 vintage is a pivotal moment in this special estate’s tale

How the Harlan family is creating Napa wine estates that are destined to become the stuff of myth: Promontory, Harlan and BOND

The Harlan legend and legacy – Promontory

Legend and legacy in Napa: the Harlan family and Promontory

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La consegna locale è gratuita per ordini superiori a 1.800 HK$ (in un'unica destinazione). Per ordini inferiori a questo importo, la consegna costa 150 HK$ fino a quattro casse e 50 HK$ per ogni cassa aggiuntiva.

Le spedizioni partono da €25 in Italia e da €45 verso la Svizzera e il resto d’Europa per un massimo di 48 bottiglie (75 cl). I costi variano in base alla destinazione. Per spedizioni più grandi è possibile richiedere un preventivo.

Puoi organizzare il ritiro presso il nostro negozio al 22° piano, 8 Wyndham Street, Central Hong Kong.
Gli orari di ritiro sono dalle 9:30 alle 18:00, da lunedì a venerdì.

Puoi organizzare il ritiro presso il nostro magazzino STI INTERNAZIONALE SPA, in Viale del Lavoro 57, 37051 Bovolone, Verona.
Gli orari di ritiro sono dalle 8:30 alle 12:30 e dalle 13:30 alle 17:30, dal lunedì al venerdì. Siamo chiusi nei giorni festivi.

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Questo articolo si trova presso FINE+RARE HOME Hong Kong, ed è disponibile per la consegna o il ritiro in sede. La maggior parte delle consegne a Hong Kong può essere effettuata entro 3 giorni lavorativi; la data esatta sarà comunicata al momento dell'organizzazione della consegna. Le consegne internazionali richiedono tempi più lunghi, ti preghiamo di contattarci per maggiori dettagli.

I vini venduti en primeur saranno rilasciati dal produttore dopo limbottigliamento, tipicamente 18 mesi dopo la fine della cosiddetta campagna. Il tuo vino sarà poi conservato da FINE+RARE in un deposito doganale fino a quando deciderai di richiederne la consegna.

Reperiremo questo articolo attraverso la nostra rete di fornitori e ne organizzeremo la spedizione a FINE+RARE.
 I tempi di consegna dipendono da molte variabili, ma una stima media è di 6-12 settimane.
 Una volta confermato lordine, ti terremo aggiornato sulla data di arrivo prevista.
 Ogni articolo viene controllato al momento della ricezione dal nostro team di esperti, con fotografie disponibili su richiesta (si prega di notare che potrebbero essere applicati dei costi).

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