Situata nel cuore della Côte d’Or, la collina di Corton domina il paesaggio, ma i suoi vini, soprattutto i bianchi, sono spesso sottovalutati. Abbiamo incontrato i principali produttori della zona per esplorarne il pedigree e il potenziale, tra vini potenti e di grande longevità.

Discover the pedigree and potential of the hill of Corton’s whites – the fine Chardonnay from Corton-Charlemagne, Charlemagne and Corton Blanc 

Exploring Corton-Charlemagne, Charlemagne and Corton Blanc 

Corton-Charlemagne: il Grand Cru del futuro?

Molto tempo fa abbiamo strappato le viti dal loro habitat naturale. Rampicanti entusiasti, i loro tralci e viticci sono fatti per aggrapparsi a qualsiasi cosa trovino mentre crescono, avvolgendosi intorno ad alberi o altre piante in natura. Ma noi abbiamo trascinato le viti fuori dalla foresta e le abbiamo costrette in rigidi sistemi di allevamento, domando la loro crescita disordinata per ottenere un raccolto che servisse ai nostri scopi. Ora, però, c’è un movimento che mira a reintegrare alberi e piante nella viticoltura. 
 Cheval Blanc è uno dei più noti sostenitori dell’agroforestazione, che rappresenta una parte fondamentale del suo manifesto per un approccio moderno alla viticoltura. Augustin Fromageot – che oggi lavora a tempo pieno presso il Domaine Belargus in Anjou – è stato uno dei membri del team coinvolti nel progetto, durante il quale sono stati piantati oltre 4.000 alberi nella tenuta in due anni. Fino ad allora, Fromageot – geologo di formazione – aveva lavorato in Sud America, principalmente nel settore del cacao e del caffè, ma la vite lo stava chiamando. Il team trasformò la tenuta in una sorta di laboratorio – sperimentando diversi modi di integrare gli alberi: tra i filari, al posto dei filari, in boschetti, ai bordi o in qualsiasi altro modo si potesse immaginare di piantarli accanto alle viti, tutto monitorato da programmi scientifici per capire cosa funziona e cosa no. Ora fa qualcosa di simile a Belargus, gestendo la loro ampia riserva naturale e lavorando per aumentare la biodiversità della tenuta – impegnandosi a gestire il paesaggio, come lui stesso lo definisce. È un’eccessiva semplificazione suggerire che le viti siano passate direttamente da rampicanti selvatici a monocolture industriali. Storicamente, l’agricoltura era policolturale, e ogni piccola fattoria conteneva tutto ciò di cui una famiglia aveva bisogno – e spesso anche le viti ne facevano parte. Il sistema a pergola, per esempio, permetteva di piantare altre colture sotto le viti, mentre l’uso di alberi come traliccio vivente non era raro – spesso descritto come viti maritate, il metodo romano degli arbusta (prediletto, per esempio, da Plinio) – e coltivate insieme, culture en hautain, cultura mista o joualle. È quest’ultimo metodo, diffuso nel sud-ovest della Francia circa un secolo fa, che Cheval Blanc ha in parte riscoperto, sostituendo singole viti con alberi all’interno dei filari. L’aspetto è magnifico, ma comporta le sue complicazioni, limitando la meccanizzazione. È, come dice Fromageot, un modo “poetico” di integrare gli alberi. In Bolivia si trovano ancora viti allevate sugli alberi, nella Valle di Cinti (come nel progetto Jardín Oculto), anche se si tratta di esempi antichi – e oggi pochi pianterebbero viti in questo modo. È un metodo impraticabile per l’agricoltura moderna, che funzionava solo su piccola scala, ma è evidente che l’industrializzazione ha spinto le monocolture troppo oltre – e l’agroforestazione è uno dei modi con cui i produttori stanno cercando di rimediare ai danni causati. 
 Gli alberi sono straordinari sotto molti aspetti, ma possono avere un impatto enorme su un vigneto. La loro presenza fisica può influenzare il microclima – proteggendo la vigna da gelo, calore e vento, oltre a fungere da barriera fisica tra proprietà confinanti – impedendo che eventuali trattamenti indesiderati raggiungano le proprie viti. Aumentano la biodiversità – offrendo un habitat a insetti e animali, in particolare ai pipistrelli – e assorbono anidride carbonica. Riducendo l’erosione del suolo (con l’erosione dello strato superficiale che rappresenta una minaccia enorme per l’agricoltura mondiale) e aumentando la materia organica, migliorano anche la capacità del suolo di trattenere l’acqua – un vantaggio importante nelle regioni aride. Per Fromageot, gli alberi contribuiscono a creare resilienza nel vigneto, rafforzando le difese naturali delle viti e riducendo quindi il numero di trattamenti necessari. È facile guardare un elenco del genere e comprendere i principi in gioco. È chiaro che i benefici per l’ambiente sono molti – ma cosa significa tutto questo per il vino nel bicchiere? Potenzialmente, molto. Bastano cinque alberi per influenzare il microclima in un raggio di 100 metri; possono ridurre la temperatura di una parcella anche di 2-3°C, preservando l’acidità, riducendo l’alcol e mantenendo la precisione aromatica. Inoltre, proteggendo il vigneto da gelo o calore estremi e migliorando le riserve idriche del suolo, consentono una produzione più costante, tutti fattori fondamentali di fronte al cambiamento climatico – con condizioni meteorologiche più estreme e un riscaldamento globale crescente. 
 Naturalmente, non è così semplice come sembra. “Ci insegna un’immensa umiltà,” mi dice Fromageot quando inizio a parlargli del mondo dell’agroforestazione, e più specificamente della vitiforestazione. È perfettamente consapevole che l’agroforestazione sia diventata una parola di moda nel mondo del vino – improvvisamente molto trendy. Ma piantare e gestire alberi richiede molto lavoro. Innanzitutto, decidere dove e come piantarli è cruciale. La loro capacità di influenzare il microclima può essere sia positiva che negativa – con la possibilità di creare sacche di gelo, aumentare l’umidità, ridurre il flusso d’aria e quindi incrementare la pressione delle malattie. “Bisogna saper leggere il paesaggio,” spiega Fromageot. 
 Occorre anche decidere quale tipo di albero piantare, così come il portainnesto, assicurandosi che si integri con la viticoltura. La prima cosa che fa Fromageot quando avvia un progetto è visitare tutti i vivai locali per conoscere le varietà autoctone. Gli alberi da frutto sono comuni, ma – come nota – bisogna assicurarsi che abbiano un periodo di raccolta diverso da quello dell’uva per evitare conflitti; lui guarda a mele, pere e prugne in particolare, sottolineando quanto siano più impegnativi pesche e albicocche. In alternativa, aceri, frassini, gelsi, pioppi neri, carpini e tigli possono funzionare bene – essenzialmente alberi che condividono lo stesso tipo di micorrize (i microrganismi che si attaccano alle radici) delle viti. È importante evitare qualsiasi specie che possa contaminare il vino o inibire la crescita – come il noce, che produce una sostanza tossica, la juglone. Gli alberi hanno esigenze molto diverse rispetto alle viti, richiedendo attrezzature e competenze differenti per prosperare, con – per esempio – una fertilizzazione estesa per stabilirsi, poiché necessitano di terreni più ricchi. Ovunque vengano piantati, gli alberi occupano spazio che altrimenti potrebbe essere destinato alle viti, riducendo così la resa potenziale. Inoltre, è un processo lento: ci vogliono circa dieci anni perché gli alberi inizino a influenzare in modo significativo la viticoltura, afferma Fromageot. Tutto ciò richiede tempo e denaro – rendendo l’agroforestazione un lusso che non tutti i produttori possono permettersi, anche se Fromageot ritiene che gli alberi possano essere integrati in modo diverso per chi lavora su larga scala. 
 Alain Canet – agronomo e specialista in agroforestazione – sostiene che reintrodurre gli alberi sia cruciale per l’agricoltura. “Per alcuni suoli è già troppo tardi,” scrive. “Ma per la maggior parte, abbiamo ancora tempo per agire... In termini agroecologici, la transizione verso gli alberi è la transizione verso la vita.” Esistono molte ragioni scientifiche per favorire la vitiforestazione, ma per Fromageot ce n’è una più convincente: il paesaggio radica le persone in una geografia, in un luogo, e questo – sostiene – è essenziale per fare vino di qualità. La bellezza del paesaggio in cui si vive e si lavora ci aiuta a “trovare un senso nella vita”, mi dice. Romantico? Forse. Ma con la scienza a sostegno, è difficile non lasciarsi convincere che gli alberi traccino la via verso un futuro più sostenibile – nel vino, sì, ma anche nell’agricoltura in generale.

L'agroforestazione è l'ultima tendenza che sta conquistando il mondo del vino pregiato, ma perché? Abbiamo incontrato Augustin Fromageot di Domaine Belargus per scoprire perché gli alberi potrebbero essere la chiave per una viticoltura sostenibile.

Agroforestry is the latest trend to take over the world of fine wine – but why? We sat down with Domaine Belargus’s Augustin Fromageot to find out more

Trees and wine: exploring the world of vitiforestry

Mettere radici: il mondo della viticoltura

Quando Alain Hudelot si ritirò nel 2008, fu suo nipote a prendere le redini della tenuta di famiglia, il Domaine Hudelot-Noëllat. Charles van Canneyt – allora appena ventenne e fresco di studi enologici – si ritrovò improvvisamente a gestire 10 ettari di vigneti e un’intera cantina. Ma non era un ventenne qualunque. Gradualmente modernizzando le attrezzature della tenuta e perfezionando la vinificazione (in particolare moderando l’estrazione), trasformò la reputazione del domaine. In breve tempo divenne noto come una delle stelle emergenti della Borgogna, con Domaine Hudelot-Noëllat presto tra i nomi più rispettati della regione. Non incline alla compiacenza, nel 2012 avviò un’etichetta négoce, offrendo un’ulteriore via per gli amanti della Borgogna di accedere al suo talento enologico. Oggi, insieme alla moglie Anne-Sophie, ha intrapreso una nuova sfida, acquistando una nuova proprietà: il Domaine des Chézeaux. Probabilmente non conoscerete il nome di questa tenuta di Gevrey-Chambertin, ma quasi certamente ne conoscerete i vigneti. La storia del Domaine des Chézeaux Il Domaine des Chézeaux fu creato da François Mercier nel 1982, anche se la famiglia possedeva vigneti a Gevrey-Chambertin dal 1928. Il nome della tenuta deriva dal Clos des Chézeaux, il vigneto recintato accanto al domaine. La famiglia era proprietaria terriera più che vinicola, quindi tutti i vigneti erano affittati – en métayage – ad altri produttori. Questa pratica è comune in Borgogna: i vignaioli che affittano i vigneti li gestiscono tutto l’anno e producono il vino, cedendo una parte della produzione (spesso circa un terzo) al proprietario come affitto. La storica tenuta crebbe dai possedimenti originari e, dal 1994, contava circa quattro ettari. I vigneti erano divisi tra tre produttori: Domaine Ponsot (poi Laurent Ponsot), René Leclerc e Domaine Berthaut (poi Domaine Berthaut-Gerbet). Ponsot affittava il lotto originale di 0,89 ettari di Griotte-Chambertin, così come i parcelle di Clos Saint-Denis*, Chambertin e Chambolle-Musigny Premier Cru Les Charmes. Domaine Berthaut affittava due Premier Cru di Gevrey-Chambertin (Les Cazetiers e Lavaux-Saint-Jacques) e i parcelle del villaggio, incluso il Clos des Chézeaux. Pur essendo tecnicamente un monopole, Berthaut non possedendo il terreno non poteva rivendicarne tale status. Prima della vendemmia 1994, la famiglia Mercier acquistò un altro lotto di Griotte-Chambertin, 0,68 ettari appartenuti a Suzanne Thomas di Thomas Bassot, ottenendo il maggior possedimento di questo Grand Cru. La famiglia Esmonin coltivava già le vigne, vendendo parte dei frutti a Jadot; i Mercier affittarono poi il lotto a René Leclerc (pur continuando la vinificazione di alcune bottiglie da parte della famiglia Esmonin fino al 1999). Una parte dei vini finiti era imbottigliata con l’etichetta Domaine des Chézeaux, ma identica a quella dei produttori Ponsot, Leclerc o Berthaut, spesso a un prezzo inferiore. Domaine des Chézeaux oggi Nel 2021 Charles van Canneyt riuscì ad acquistare la tenuta e i suoi prestigiosi vigneti. Con tutti i vigneti sotto contratto en métayage, la sfida successiva fu riottenerli – negoziando con ciascun produttore. Nel 2022 ottenne il monopole Clos des Chézeaux e Premier Cru Les Cazetiers, ma vendette i frutti. Nel 2023, recuperato un lotto di Griotte-Chambertin, realizzò i primi vini dalla proprietà. Nel 2024 riuscì a recuperare tutti i vigneti – aggiungendo Chambertin, Clos Saint-Denis e Chambolle-Musigny Premier Cru Les Charmes. Come parte delle negoziazioni, furono venduti i parcelle Lavaux-Saint-Jacques, alcune vigne di Gevrey-Chambertin village e due piccoli lotti di Griotte-Chambertin. I vigneti sono generalmente vecchi in tutta la tenuta, e coltivazione e vinificazione seguono gli stessi metodi di Hudelot-Noëllat: frutti totalmente diraspati e estrazione molto delicata. Le prime annate furono vinificate a Domaine Hudelot-Noëllat (ma affinano nelle cantine del Domaine des Chézeaux) e è iniziata la costruzione di una nuova cantina, prevista per la fine del 2025. Van Canneyt ha già notato una maturazione diversa delle uve a Chézeaux, con cantine fresche e umide che rallentano l’élevage e richiedono meno rabbocco. Prevede quindi di affinare i vini più a lungo rispetto a Hudelot-Noëllat. La tenuta mantiene il nome storico, ma con nuove etichette – per differenziare le bottiglie precedenti all’arrivo di Van Canneyt. Il nome ha la stessa origine di Echezeaux: chesaux – plurale di chesal (dal latino casellum o casalis) – che significa casa o edificio in pietra. I vigneti del Domaine des Chézeaux Oggi la tenuta conta circa tre ettari di vigneti, di cui oltre la metà Grand Cru, distribuiti su sei appellations: Gevrey-Chambertin Clos des Chézeaux: monopole di 0,5 ettari, alcune vigne quasi centenarie (piantate nel 1929), su pendio medio esposto sud-est, su suoli profondi argillosi e ghiaiosi. Gevrey-Chambertin Premier Cru Les Cazetiers: 0,216 ettari in due parcelle, nord 0,1615 e sud 0,045 ha. Chambolle-Musigny Premier Cru Les Charmes: circa 0,6 ha, con ulteriore parcella a Domaine Hudelot-Noëllat. Clos Saint-Denis Grand Cru: 0,3776 ha, comparirà nel 2024 con un solo barile, ora reimpiantato fino al 2029. Chambertin Grand Cru: 0,143 ha nel cuore del Grand Cru. Griotte-Chambertin Grand Cru: 1,264 ha, il lotto più grande del piccolo Grand Cru, cuore dell’appellation. Focus su Griotte-Chambertin Griotte-Chambertin, o En Griotte, è il più piccolo dei Chambertin Grands Crus (2,69 ha) e tra i più piccoli della Côte d’Or, insieme a La Romanée, La Romanée-Conti e La Grande Rue. Situato sotto Clos de Bèze, con esposizione nord-est, permette maturazioni lente, vini delicati, aromatici e profumati, meno muscolosi rispetto al tipico Gevrey-Chambertin. Suoli ghiaiosi e calcarei con argilla a pendio. Domaine des Chézeaux è il maggiore proprietario (1,246 ha, quasi metà del vigneto). Altri proprietari: Joseph Drouhin, Fourrier, Claude Dugat, Marchand Frères, Joseph Roty, Duroché, Laurent Ponsot e un investitore che affitta il lotto a Cécile Tremblay. L’origine del nome è dibattuta: “griotte” (ciliegia amarena) o “criotte” (piccola pietra calcarea nei suoli). Storia delle etichette Griotte-Chambertin Le bottiglie storiche sono state un segreto per gli insiders, spesso Ponsot o René Leclerc sotto altre etichette. 1982–1993: unico lotto di Griotte-Chambertin, affittato a Ponsot. 1994: prima annata con secondo lotto, affittato a René Leclerc, blendato con il primo. 1995–2001: due imbottigliamenti identici senza indicazione del produttore. Dal 2002: produttore indicato sulle etichette. Fino al 2004 due bottiglie, dal 2005 René Leclerc solo occasionalmente. Il futuro del Domaine des Chézeaux Nonostante la lunga storia per una tenuta moderna, è solo l’inizio. Con un vignaiolo talentuoso come Charles van Canneyt e vigneti così prestigiosi, la qualità è destinata a crescere e i vini diventeranno presto ambiti quanto quelli di Hudelot-Noëllat. Annate 2023 del Domaine des Chézeaux 2023 Gevrey-Chambertin Clos des Chézeaux: 0,5 ha, vigne quasi centenarie, frutto rosso intenso, fiori di iris e violetta, tannini fini e salinità nel finale lungo. 2023 Gevrey-Chambertin Premier Cru Les Cazetiers: vigne vecchie, vino delicato, minerale e floreale, frutti trasparenti e tannini minerali equilibrati. Cinque barili prodotti. 2023 Griotte-Chambertin Grand Cru: lotto più grande del Grand Cru, aromatico ed elegante, frutti rossi succosi, spezie dolci e leggeri toni tostati, struttura che richiede tempo. Debutto superbo. Tenete d’occhio le prime uscite dei vini del nuovo Domaine des Chézeaux; nel frattempo, scoprite di più sulla Borgogna.

Nel 2021 Charles van Canneyt del Domaine Hudelot-Noëllat ha acquistato il poco noto Domaine des Chézeaux. In vista della prima annata, esploriamo la storia di questa proprietà di Gevrey-Chambertin, destinata a diventare uno dei nuovi indirizzi più interessanti della Côte de Nuits.

Everything you need to know about this Gevrey-Chambertin wine estate, now owned by Charles van Canneyt of Domaine Hudelot-Noellat  

The new Domaine des Chezeaux, Gevrey-Chambertin 

Il nuovo Domaine des Chézeaux 

The 2019 vintage in Montalcino has been hotly anticipated – following on from two trickier years, 2017 and 2018 (although we found the latter to offer some very elegant wines), it’s a year that seemed set to receive critical acclaim to match the lauded 2016.  A wet winter replenished water reserves, with a damp spring and warm, dry summer. There were no serious extremes in the conditions, with rain showers arriving in September allowing for a harvest of juicy berries, with little disease pressure, from the middle of the month, finishing in early October. It delivered both quality and quantity, and from what we’ve tasted the wines are extremely impressive – combining power and elegance, offering approachable yet clearly age-worthy styles with effortless balance.  Vinous – Antonio Galloni  For Antonio Galloni, one of the defining features of the 2019 vintage is its consistency: “The entire region excelled, from southwest to east and northeast to west. Frankly stated, finding a 2019 that doesn’t show remarkable balance, vivid fruit and freshness is a difficult task,” he writes.   The stress-free growing season produced wines of “utter harmony”, “a blending of power and elegance in a way seldom seen”. He explains that many producers describe the wines as “crunchy”, something he feels is apt, and compares the wines to the 2016s, but with more energy and the aforementioned crunchy tannins. “This is a vintage of radiance and appeal,” he says of 2019, a vintage with wines that are aromatically expressive, offer sense of place and typicity – often earning descriptors such as “classic, racy, cool-toned, crunchy and sleek”, as well as being built for the cellar (maturing over the next 10-15 years or more). It is, he writes, “the vintage we’ve all been waiting for”.  He emphasises that it isn’t just the 2019s that are so enticing, but that the “high-energy and fruit-forward” 2021 Rossos that make for “an embarrassment of riches” with the current releases. The 2021 Rossos offer “charming, wildly aromatic, drink-me-now personalities” – and are, he says “an excellent choice for collectors”, he suggests, providing “open drinking windows and gobs of pleasure” while the 2019s mature in the cellar.  Antonio Galloni’s top 2019s: Canalicchio di Sopra Vigna La Casaccia, Il Marroneto Madonna delle Grazie, Le Potazzine, Pian dell’Orino Bassolino di Sopra, Valdicava Vigna Montosoli, Mastrojanni Vigna Schiena d’Asino, Canalicchio di Sopra Vigna Montosoli, Baricci, Le Ragnaie Casanovina Montosoli, Argiano Vigna del Suolo, Altesino Vigna Montosoli  Explore Antonio Galloni’s full report, notes and scores on Vinous (subscribers only)   Wine Advocate – Monica Larner  “Now is the time to take a closer look at this storied Tuscan appellation,” advises Monica Larner – who is clearly excited by the quality of the 2019 vintage in Montalcino.   For Larner, 2019 offers “good balance between acidity, concentration and tannins” – with the latter more elegant than those of the 2018s. The wines are concentrated and weighty, yet balanced and elegant, and therefore remind her of 2007 or 2015. As other critics note, the wines are likely to be approachable in youth yet have the acidity and structure to age. The season was “uniformly easy” in both the vineyard and winery, and she highlights the large number of wines scoring between 97 and 99 points.  While both Kerin O’Keefe and Antonio Galloni feel 2019 has the edge on 2016, Larner believes that “2016 remains superior in my view in terms of elegance and longevity”, although 2019 “ranks close”. For her, one of the reasons the vintage feels so significant is that it marks the beginning of what she perceives as a “new wave” for Montalcino, with a group of producers pushing quality forward, inspired by Burgundy and Barolo to make wines with “vibrant flavors, light and energy”.  Monica Larner’s top 2019s: Le Ragnaie V. V., Il Marroneto Madonna delle Grazie, Poggio di Sotto, Giodo, Salicutti Teatro, La Ragnaie Passo del Lume Spento, Canalicchio di Sopra Vigna Montosoli, Castello Romitorio Filo di Seta, Casanova di Neri Giovanni Neri, Ciacci Piccolomini d’Aragona Pianrosso, Pieve Santa Restituta Sugarille  Explore Monica Larner’s full report, notes and scores on the Wine Advocate (subscribers only)  Kerin O’Keefe  You may not be familiar with the name Kerin O’Keefe, but she is one of the leading Italian wine critics. She was the Italian Editor for Wine Enthusiast for almost a decade, before she set up her own platform, however she is perhaps best known for her most recent book, Barolo and Barbaresco: The King and Queen of Italian Wine, and also wrote a book on Brunello di Montalcino in 2012.  For O’Keefe, the 2019 vintage is clearly an excellent year for Montalcino. “I’ve never tasted so many drop-dead-gorgeous young Brunellos from a single vintage,” she writes. It “has definitely lived up to its lofty reputation” and “the 2019s are overall even better than the 2016s”, she says. The wines combine “intensity, exuberance and great fruit as well as balance”, with many estates making their best wines ever. The growing season was “ideal”, and most 2019s offer “vital energy and refined tannins that allow the wines to showcase their [terroir]”.  Of course, while “it’s hard to find any defects with the 2019s”, there are of course some “more densely concentrated wines with generous alcohol levels”. Most, however, are “incredibly fragrant”, “full-bodied”, with “great energy” and “taut but refined tannins”, with the best combining body and finesse. She anticipates the wines ageing beautifully over the next 20 or so years.  Kerin O’Keefe’s top 2019s: Conti Constanti, L’Aietta, Le Chiuse, Ciacci Piccolomini d’Aragona Pianrosso, Gianni Brunelli, Canalicchio di Sopra, Gorelli, La Gerla, Lisini, Mastrojanni Vigna Loreto, Podere Le Ripi Cielo d’Ulisse, Salicutti Sorgente, Talenti Piero, Ciacci Piccolomini d’Aragona  Explore Kerin O’Keefe’s full report, notes and scores on her site (subscribers only)  jancisrobinson.com – Walter Speller  The comparison between 2016 and 2019 continues in Walter Speller’s report and he highlights how divided producers are on which is better. All agree, however, that 2019 provided a growing season without extremes – something “which has become the definition of a great year”.  He draws comparisons between 2004 (which offered quantity and quality), as well as 2015. “I’m not entirely convinced 2019 has the same pedigree as 2016,” Speller writes. While there are some outstanding wines, he feels there are wines with stubborn tannins – and he doesn’t find it as consistent as other critics, but rather confirms that the best producers make fantastic wines year in, year out. He emphasises, as well, that quality is determined by producer rather than location in the region.   Walter Speller’s top 2019s: Il Marroneto Madonna delle Grazie, Canalicchio di Sopra Montosoli, Conti Constanti, Le Chiuse, Canalicchio di Sopra, Pieve Santa Restituta Sugarille, Le Ragnaie Casanovina Montosoli, Capanna, San Polino Helichrysum, Le Ragnaie V. V., Sesti, Fuligni  Explore Walter Speller’s full report, notes and scores on jancisrobinson.com (subscribers only)   James Suckling  James Suckling remarks that, as a growing season, 2019 was “a throwback to the late 1990s”, echoing other critics in saying that producers found it an easy year with no major challenges in the vineyard and winery. “I loved them,” he writes of the wines, enjoying a “crunchy and pure fruit character” in many. His two 100-point wines (Casanova di Neri Giovanni Neri and Valdicava Vigna Montosoli) have “incredible clarity of fruit and fine tannins as well as a transparency that takes them to their unique soils and locations on the hillsides surrounding Montalcino”.  Suckling also highlights how there is decreasing emphasis on new barriques, with old oak and larger casks increasingly favoured by producers in the region, as well as a growing number of single-site wines.  While he notes that producers compare the year to 2010, 2015 and 2016 (or some combination of those years), for him they are closest to 2004, 1997 or 1998 – having a “neoclassical character” thanks to their “agility and harmony”, and recommends giving them three to five years in bottle “to come into their own”. Whichever year you compare it to, however, Suckling is clear that “2019 is definitely a vintage to buy”.  James Suckling’s top 2019s: Casanova di Neri Giovanni Neri, Valdicava Vigna Montosoli, Giodo, Siro Pacenti Vecchie Vigne, Argiano Vigna del Suolo, Cerbaia, Fuligni, Tenuta Luce  Explore James Suckling’s full report, notes and scores on his site (subscribers only)  Jeb Dunnuck – Audrey Frick The latest report to be released on Montalcino is courtesy of Audrey Frick, Jeb Dunnuck’s Italian correspondent. She reports that 2019 wines are “exceptional and offer consistent greatness across the region”. She compares the wines to those of 2015 for their depth and concentration, 2016 for the vibrancy and tension, and 2010, saying that they offer “outstanding freshness, incredible balance of richness, and a great deal of complexity”. No matter your tastes, there is, she says “something for everyone regardless of style”. The easy growing season, with no major heat spikes or challenges, has resulted in a vintage that is defined by its “completeness” and advises “collectors are going to want to snatch up top bottles from across the region”. She highlights Poggio di Sotto and Il Marroneto Madonna delle Grazie in particular, identifying them as two, contrasting wines that “highlight the incredible potential of this vintage”. Audrey Frick’s top 2019s: Il Marroneto Madonna delle Grazie, Canalicchio di Sopra Vigna La Casaccia, Casanova di Neri Giovanni Neri, Gianni Brunelli, Giodo, Le Chiuse, Le Ragnaie V. V., Pieve Santa Restituta Rennina, Poggio di Sotto, Val di Suga Poggio al Granchio Explore Audrey Frick's full report, notes and scores on the Jeb Dunnuck site (subscribers only) Browse all current listings of 2019 Brunello di Montalcino or read more Editorial 

Following on the heels of 2017 and 2018, the 2019 vintage seems like a blessing for Montalcino – a year to rival 2016. As the Brunello di Montalcinos from the year are released, we provide a round-up of what the top critics are saying about the vintage – as well as their top-scoring wines

The leading critics’ views on 2019 Brunello di Montalcino as well as their top-scoring wines: Antonio Galloni, Monica Larner, Kerin O’Keefe and Walter Speller

Brunello di Montalcino 2019 – critics’ round-up 

Brunello di Montalcino 2019: what the critics are saying

“The only thing more fun than drinking wine is buying wine,” says Allan Frischman, our new Vice President of Global Client Reserves, arching an eyebrow and laughing. He should know – he’s been working in the wine business since the early 1990s, with the vast majority of that spent sourcing, studying, authenticating and selling fine wine collections for a leading auction house. As of this month, he’ll be working to develop our network of reservists and their portfolios – allowing our clients to both sell and buy even more than before, giving us – and you – access to the world’s finest (and deepest) cellars. Beyond this, he’ll be finessing local pricing for each market we work in and helping manage clients’ wine storage – a job for which he is uniquely qualified. Frischman grew up in New Jersey and never planned to get into wine – but he took a part-time job at college (“to pay for beer”, he confesses) in a wine shop. The shop’s storage system was divided by country and region, with a warren-like basement that he needed to navigate, finding the right bin for new stocks. Reading about the different appellations, and using his staff discount to buy the odd bottle, got him interested – but it was a bottle of 1975 Ch. Talbot, tasted at Mary Ewing-Mulligan MW’s International Wine Center that hooked him: “At that point, I knew that this is what I wanted to do.”  The economics graduate was working at Manhattan’s Morell & Co. when, in 1994, the laws changed. For the first time since Prohibition, wine auctions were permitted to take place in New York State. “I didn’t know anything at all about auctions,” says Frischman – but it didn’t stop him jumping headfirst into something new, organising the state’s first commercial wine auction since 1920. “I didn’t know if we were going to get 10 bidders or 1,000,” he tells me. He shouldn’t have worried, for that auction was met with such enthusiasm that he walked away from the event on cloud nine, confident that he had found his calling.  In the 30 years since, he’s seen the auction business transformed. The 1994 law change created a new hub for wine’s secondary market, with New York rapidly becoming a rival for its traditional heartland in London – and the Big Apple rapidly added its own signature. Until then, auctions were staid affairs, dominated by trade buyers with little action beyond the raising of paddles in muted crowds – in Frischman’s words, “something dreary that dragged on for 10 hours”.  But Zachys – one of the auction houses that popped up in New York – added American flair, a touch of Broadway jazz hands to turn auctions into events, gathering bidders at round tables with great food and wine. Traditionalists said it wouldn’t work – but they were wrong. No longer were auctions purely a way to buy wine, they became fun – they became a place for wine lovers to gather, eat, drink and be seen. Higher attendance meant more bids, higher hammer prices – and more consignments that in turn brought more business, and a shift from trade to individuals.  The late 2000s brought challenges. “The Dow Jones was tumbling and it looked like the world was about to collapse,” Frischman tells me, looking back at the worldwide recession. “It was terrifying and of course people stopped buying wine.” But as Frischman rapidly learnt, people were waiting for the bottom of the market – and then they started buying again. At the same time, Hong Kong abolished import duty on wine (initially halved in 2007 and removed entirely in 2008) – and, like New York in 1994, instantly became a new centre for the wine trade. “The Asian market evolved almost over days,” remarks Frischman. “It became extremely sophisticated very quickly.” American auction houses started opening offices in Hong Kong. “For a few years, Hong Kong was just chewing up all the wine and the big hammer prices were all [there].”  The most recent shift in the world of auctioneering has been the advent of real-time, online bidding – one forced by the Covid-19 pandemic. “There was a perception that it would discourage people to show up in the sale room and would also discourage people from leaving bids in advance,” Frischman says, explaining why the industry was perhaps a little slow to embrace the online sphere. Interestingly, however, he anticipates that before online bidding was introduced, maybe only 10% of lots went to bidders physically in the room. With consumers stranded at home, and the technology already up to scratch, online auctions rocketed – and opened the market to an even broader range of consumers, with bidding wars between wine lovers in Brazil, Singapore, London, New York, Hong Kong and beyond now the norm.  As auction houses realised that online auctions worked, the need for events and associated spend dropped – and the auction style established by Zachys in the 1990s has become significantly less common. You might argue that this also heralds the end of the auctioneer – but even online companies have retained the compère, the familiar patter still something that bidders want.   It isn’t just where and how wine was selling, but which wines were selling that has evolved. In the mid-1990s and early 2000s, Frischman notes how the US market centred on Napa’s cult Cabernets, along with wines from the likes Williams Selyem, Ravenswood and, of course, Bordeaux’s top names. “[There was] across the board demand for Bordeaux,” Frischman tells me, “but you couldn’t give Burgundy away.” Of course, that’s all changed now – and Burgundy, despite its extremely limited supply, has become the darling of the fine wine scene. As prices have soared for the Côte d’Or’s top wines, wine lovers have started looking elsewhere, to Italy (Barolo, Barbaresco and some Brunello), Madeira (especially older vintages) and the Northern Rhône (Côte-Rôtie, Cornas and Saint-Joseph) – but none have the liquidity of Bordeaux. “They [the Bordelais] don’t get enough credit for the sheer, mind-boggling amount of great wine they’re able to put out every year,” says Frischman.  Over the years, Frischman has become an expert authenticator – the sort of knowledge that can only be gained by handling immense volumes of fine wine, working closely with producers and getting up close and personal with the rarest bottles. In 2006, he went to check over some wines that had been sent to the auction house he then worked for by a young Asian collector. The consignment was significant, worth millions of dollars – but even from across the room, Frischman knew that the wines didn’t look right. Closer inspection only confirmed that the wines looked like fakes – and the auction house turned them away, sending them back to the collector, then a new name on the scene, Rudy Kurniawan. A couple of years later, he got a call from the FBI’s Jim Wynn, asking if he would be an expert witness in a wine fraud case against Kurniawan, who had – by that point – become prolific. “I inspected, I don’t know, 40 bankers boxes of stuff that they’d gotten from his home, stamps for corks, fake labels, fake import strips – all kinds of stuff,” he says. In a warehouse in Queens, he studied the evidence – “going through bottle after bottle after bottle and writing a report about why I thought that they were fake”. It was – and still is – the biggest wine forgery case to have ever taken place, and Frischman, along with fellow authentication expert Michael Egan, was essential to proving Kurniawan’s guilt.  Wine authentication has become an essential component of wine collecting, and a key reason to work with trusted merchants. There are people who suggest that as much as 10% of wine on the secondary market is fake, but – in Frischman’s view, having handled fine wine for over 30 years – “That’s a substantial overestimate.” Despite such claims, forgery has only become more sophisticated, and it’s important, he says, to work with someone who knows what they’re looking at. “You want someone who is experienced to look at the bottle and who is empowered to say, ‘I don’t like it – we’re not offering it.’” There’s a big difference, he explains, between being convinced something is fake, and being convinced something is real – and you always want the person checking wines you’re buying to be in the latter camp.  The wine business is a people business – and he’s been lucky to spend three decades getting to know the world’s foremost collectors, spending time rustling through cellars, lugging his fair share of cases in and out of vans, and cradling bottles of elusive vintages and cuvées. Beyond this privilege, he’s often found himself on the receiving end of collectors’ generosity – recognising a fellow enthusiast’s passion. When I ask him if there’s a bottle that stands out, beyond the 1975 Talbot that was his hook into the industry, his eyes mist over. It was, he tells me, on a trip to Tokyo, at a remarkable dinner that included some incredible wines, including the fabled 1947 Cheval Blanc. But it was a bottle of 1978 La Romanée-Conti from Domaine de la Romanée-Conti that stole the show: it was “breathtaking, magical”, he says. “I was practically brought to tears.” Until that moment, he’d never necessarily understood why collectors kept this prized cuvée, and didn’t sell it to fund their La Tâche or Romanée-Saint-Vivant – but this bottle made him realise just why people don’t. “This wine was perfect,” he says.  It’s easy, perhaps, to imagine the auctioneering world is over-run with wine investors, but that’s far from what Frischman has found. “The vast majority, regardless of what they say they’re doing, are buying to drink,” he says. On paper, that may not make sense – after all, who needs 30,000 bottles of wine? But that, as Frischman and any wine obsessive knows, is the collector’s mentality – and, deciding to sell, despite owning more wine than could possibly be consumed in a lifetime, is much harder than buying another case or 10.  When Frischman first started auctioning wine, he recalls talking to his father, who wondered if there was enough fine wine to sustain a career. The beauty, Frischman, now knows, is that there’s a new vintage every year – beyond that, and as he’s seen over the past 30 years, the wine world is constantly shifting, with an ever-expanding range of regions and producers. And he’s evolving with the industry, making a move of his own and bringing his expertise to FINE+RARE. We can’t wait to see what he’ll do. Whether you’re looking to buy, sell or anything else, contact Allan Frischman directly at allan.frischman@frw.co.uk

After two decades at one of the world’s leading auction houses, Allan Frischman has joined our team, as Vice President of Global Client Reserves. We caught up with him to dive into the world of auctioneering, his 30 years in the business and his new role

After two decades at one of the USA’s leading auction houses, auctioneer and wine authentication expert Allan Frischman has joined our team

Introducing Allan Frischman

Hammer time: Allan Frischman

Few people have been lucky enough to be as immersed in Burgundy’s finest wines as Martin Donatsch. His father bought a pallet of top Burgundy, including those of Domaine de la Romanée Conti (DRC) and Armand Rousseau, every year from the early 1970s onwards. Martin’s birth in 1978 – a fantastic vintage in Burgundy – only encouraged his father to buy more, and Martin, now in his early 40s, has been enjoying wines from the family collection ever since. Just last week, he uncorked a 1978 DRC Echézeaux. This immersion has provided him with an extraordinary understanding of Chardonnay and Pinot Noir – something that has doubtless helped him become one of the world’s great emerging winemaking talents. Donatsch is one of a small number of producers growing Pinot Noir, Chardonnay and the native Completer grape in Bündner Herrschaft in Switzerland. This tiny Swiss valley, for the time being, remains largely unknown – but, as Donatsch certainly believes, it may just be one of the world’s last great regions for fine wine production.The altitude (500 to 700 metres above sea-level) sees the vines flower a week later than is typical in Burgundy, yet picking dates are three to four weeks later. This provides a much longer growing season, allowing for complex flavours and aromas to develop in the grapes. Despite the altitude, the grapes reach good levels of ripeness thanks to the warm, dry wind – known locally as a “foehn”, that sweeps through the valley. Unlike Burgundy, autumns here are dry, so there is rarely pressure to pick before rain arrives, allowing for additional hang-time. The altitude keeps the acidity high, offsetting the naturally slightly higher alcohol (typically around 14%), meaning the wines never feel overly alcoholic. While Bündner Herrschaft has been home to Pinot Noir since the 15th century, Donatsch – now in the hands of the fifth generation – has pioneered the quality revolution in the region. Martin’s father Thomas Donatsch was not only the first to – then illegally – plant Chardonnay in 1975, but also the first to introduce French barriques to Switzerland, influenced by his vigneron friend André Noblet, the winemaker at Domaine de la Romanée-Conti from 1945 to 1986. In the early 1970s, Thomas – a young 20-year-old about to take on the family winery – set off to learn from the best. Obsessed with Burgundy from a young age, he knocked on the door unannounced at Domaine de la Romanée-Conti. In a fortuitous set of circumstances, Noblet had just returned from his first ever holiday (in Gran Canaria) and the first extended time away from his beloved wines. He had missed his wine cellar so much during the trip, he couldn’t wait to return. Finding the young Donatsch sitting by the door and desperate to reacquaint himself with his wines, Noblet invited Thomas to spend the afternoon with him tasting the different cuvées from barrel. Martin believes his dad gained Noblet’s trust by initially criticising DRC’s Montrachet 1968. Tasting the wine Donatsch reportedly said, “There is no way this wine could come from the great Montrachet!” A little precocious, perhaps: fortunately Noblet agreed it wasn’t his finest vintage, but the result of experiments in the winery. It was the beginning of a lifelong friendship, with Donatsch returning to the DRC cellars every year. On each visit, Noblet would always pour him a glass of Montrachet 1968 and ask his opinion before tasting any of the other wines. It wasn’t long before Donatsch was buying a pallet of Grand Cru Burgundy every year (at that time a bottle of La Tâche was just over £35 a bottle). Noblet also started to help Donatsch improve his Pinot Noir – first by giving Thomas his first three French barriques. These weren’t just any old barrels though, they had previously held La Tâche and were made by François Frères – who at the time had just two customers, Domaine de la Romanée-Conti and Henri Boillot. Donatsch took the barrels back to Switzerland, and the winery has been using François Frères barriques ever since. I asked Martin why the introduction of French barriques in Switzerland was such a revolution for the region. At the time, he says, the Swiss wine schools were obsessed with cleanliness – teaching the importance of filtering wines, using protective winemaking methods and using stainless steel tanks even for the red wines. The use of barrels was the opposite; it meant no additional filtering and a more oxidative environment. Donatsch believes the introduction of barriques around the world revolutionised fine wine. Angelo Gaja was the first to do it in Italy; Torres the first in Spain; Mondavi in the US; and Keller in Germany. But Thomas Donatsch was doing this 10 years before any of them, thanks to the influence of André Noblet, as well as Jean-Bernard Delmas – the winemaker at Château Haut-Brion, another of Thomas Donatsch’s influential friends.  Speaking with Martin Donatsch, you can’t help but feel he has got all his priorities in order. The small size of his winery means he can control every aspect of production, while benefitting from the variety that a life in wine can offer. Producing just 35,000 bottles a year means that when he is not in the vineyard tending his crop, he is in the winery, or fulfilling orders and redesigning his website (graphic design is another passion of his). Being one of the country’s most prestigious winemakers he sells his wine into the country’s top restaurants and luxury hotels, who can’t get enough of his wine. Donatsch’s annual release of wines sells out in just hours. While this is a great sign of his talents, it is also why many people outside of Switzerland have never heard of, let alone experienced, the world-class Pinot Noir and Chardonnay from the winery. Despite the demand for the Donatsch wines, there are no plans to expand: firstly because the authorities won’t allow it, but second because Martin loves the “human” size of the business and doesn’t want to lose that. Martin is, however, keen for more people outside of Switzerland to taste them. Beyond the tiny volumes that make it as far as export, to source these extraordinary wines you’ll have to (when one can) visit the winery yourself. You may just, knocking on the cellar door unannounced, receive a welcome as warm as young Thomas Donatsch did at Romanée-Conti.  Browse the latest releases from Domaine Donatsch or explore more Editorial

There is such domestic demand for the wines of Domaine Donatsch that they are rarely seen outside Switzerland. Tucked in amongst the Alps, this property makes world-class Pinot Noir and Chardonnay that gives Burgundy a run for its money. Gavin Smith explores the extraordinary site 

Winemaker and Domaine Donatsch owner Martin Donatsch on his world-class Swiss Pinot Noir and Chardonnay that give Burgundy a run for its money.

Exploring Donatsch's world-class Swiss wines

The high life: Martin Donatsch

Claude Giraud (owner of Champagne Henri Giraud) – 1999 La Romanée-Conti, Grand Cru, Domaine de la Romanée-Conti “We always spend Christmas with the family and everyone brings a bottle they want to share. This bottle is first and foremost a Grand Cru of Pinot Noir, and we love the Grands Crus of Pinot Noir in both Champagne and Burgundy. Following a bottle of our own Grand Cru – Hommage au Pinot Noir and an MV10 Champagne, of which both would have benefited from a few years of aging, I will serve the Romanée-Conti. I like to drink these wines quite early in the meal, their fragrance, their voluptuousness, and their precision make me happy to continue the meal. This bottle is also a memory of the person who gave it to me on one of my trips to Japan. I will call my friend on this occasion. Because wine is that – beyond a taste, it's a story, a bond of friendship, a touch of humanity that we so badly need for these end of year celebrations.” Sébastien le Golvet (winemaker at Champagne Henri Giraud) – 2011 Único, Vega Sicilia, Ribera del Duero “Christmas with the family at the Girauds is a string of bottles, each more extraordinary than the last. Thanks to my wife Anne (one of Claude Giraud's daughters) I had the chance to discover some great wines. These wines inspire me every day when I am in the vineyards or in the cellar. They make me want to surpass myself and always go further in precision and excellence. Vega Sicilia is one of those first great Spanish wines which made a deep impression on me. I like them old, after 20 years, 30 or more because this is really where Vega Sicilia fully expresses itself. And then I recently drank in Mexico a bottle of 2011 Vega Sicilia and I was amazed. It is so young and already so beautiful! I told myself that I couldn't keep this secret to myself, I wanted to share it with my family. So, coming back from this trip, I immediately put some in my cellar. And the first bottle will be for Christmas.” Tod Mostero (Dominus) – 2005 Riesling Auslese, Graacher Himmelreich, Joh. Jos. Prüm, Mosel “It is finally feeling cold enough here for the subtle fruit and mineral shades of a Joh. Jos. Prüm Graacher Himmelreich Auslese 2005, which may pair well with a grape and quail dish I love at Christmas time. I like to travel in my mind and tell stories with my family at the holidays. This bottle was offered to me by Michael Grimm (our distributor in Germany) and his family shortly after I returned to California in 2007. He and his family have become close over the years. I will also remember Bordeaux, my spiritual family in Libourne, and the gravelly earth and creamy tones of Pomerol soils with a 1982 La Fleur-Pétrus or the pillar of beauty, 2009 Trotanoy – bottles offered to me by Christian Moueix to celebrate the end of year. It is fun to pour a wine and talk to loved ones of the people and places in the bottle.” Gaia Gaja (Gaja) – 1961 Barbaresco, Gaja “This Christmas more than ever the family will gather in full, at my parents' house to celebrate Christmas together. I can’t wait. It will be a long day of celebration, cooking and enjoying each other’s company. Several wines will accompany us throughout the day and surely will be inspiring to the memories. In particular, I am excited to share a magnum of Barbaresco 1961 because this year we are celebrating the 60th anniversary of my father’s great career and this wine was his first step – the first vintage made by him when he was just 21!” Thomas Duroux (Ch. Palmer) – 2009 Malvasia delle Lipari Passito, Caravaglio, Sicily “In July 2011, I went for the first time to Salina, one of the seven Aeolian Islands. I had a little knowledge of the wines produced there but I did not know Antonino Caravaglio. We spent a lot of time together and I had a chance to taste several Malvasia from his estate. I took the hydro-foil ferry back to Sicily along with six bottles of his 2009 Malvasia delle Lipari. This sweet wine, made with dried berries from Malvasia grape variety develop extraordinary aromas with age, such as rosemary bush and dried apricot. This is really something that does not exist anywhere else. I plan to open the first bottle this Christmas and this wine will be my second daughter Gabrielle’s, born in 2009, first sip of wine!” Chris Riesbeck (Westland Distillery) – Garryana Edition 6 “For the holidays, I love to go with big Sherried malts during the colder months – our latest Garryana Edition 6 is just absolutely wonderful. It combines what I love in Sherry (dried fruits) with classic Garry Oak notes of ginger, clove, barbecue smoke. We used quite a bit of ex-Calvados and fruit brandy casks as well, so it’s this fantastic bouquet of candied fruit and smoke (not peat). Aside from that, I have a running obsession with large format (three-litre for the win!) during the holidays. It’s such a fun treat to share those sorts of things with loved ones. This year I’ve pulled a three-litre bottle of Marcel Lapierre Raisins Gaulois 2017 out of the cellar to celebrate.” Francesco Ripaccioli (Canalicchio di Sopra) – 2013 Chianti Classico Riserva, Vigna del Sorbo, Fontodi “One of the bottles that I will definitely open this Christmas will be Fontodi’s Chianti Classico Riserva Vigna del Sorbo 2013 in magnum. This bottle is so special for me for many reasons, for sure it is one of the greatest wines I ever tried, but behind this, there is a family (the Manetti family) and a man, Giovanni Manetti, who at the beginning of my journey in the world of wine was a great sponsor for me, granting me his friendship and his continuous support. Fontodi has been, and still is today the greatest example of how a family-run estate can stay local, while thinking global. I love the 2013 vintage in all of Tuscany and also Piedmont. The wines mature very slow and this is the sign for me of a great vintage. But we can now already start to enjoy something from it for sure.” Frédéric Weber (Bouchard Père & Fils) – 1999 Beaune-Grèves, Premier Cru, Le Vigne de l’Enfant Jésus, Bouchard Père & Fils “Christmas day is the perfect day to celebrate this wine, so it is an easy choice for me. This is a great wine, from an appellation that today is still too underrated. Historically the top wines from Beaune were the most expensive in Burgundy and can compete with some of the finest. I have chosen 1999 because this was in fact the first bottle I bought from the domaine when I joined Bouchard in 2002. It is a fantastic vintage for Burgundy and is drinking beautifully now. I am looking forward to sharing it with my family this Christmas.” Rebecca Jago (The Last Drop) – The Last Drop Très Vieux Pineau des Charentes “This Christmas, we’ll be opening a magnum of Pol Roger I was kindly given last year but further lockdown meant we just didn’t have the company to drink it all! We have a mix of family and friends for Christmas Day and we’ll open a bottle of Newton’s unfiltered Chardonnay (my husband’s favourite), and some Ch. Talbot 2000. And, with the Christmas pudding, I’ll be opening my bottle of our incredible 100-year-old Pineau des Charentes: I can’t wait to share it with our loved ones. As evening falls, a small glass of Tom’s Blend No 1 for a moment of quiet reflection and memories of my much-missed parents.” Martin Donatsch (Donatsch) – 2016 Grüner Veltliner Smaragd, Honivogl, Franz Hirtzberger, Wachau “My motto: It's better to drink a few great wines than to unwrap a lot of presents. Unfortunately, it will be a sad Christmas for us, as it will be the first without my mum. She sadly passed away in the summer after a hard fight with cancer. So, we will be drinking one of her favourite wines in her memory. She loved Grüner Veltliner from Austria, so there will certainly be a Honivogl from our friends Hirtzbergers in the Wachau, which my mother loved so much. For red wine we will have some of our favourites, a 2011 Romanée-Saint-Vivant from Romanée-Conti and a 1989 Haut-Brion. Noblet and Delmas were for us the best cellarmasters ever on this planet. They both inspire me again and again when I drink their wines. For the sweet end, it will be Yquem again... I drink Yquem maybe three or four times a year. But at Christmas, this world-class sweet wine is always a must! Which vintages we open, I decide spontaneously shortly before Christmas but I’m thinking it will most likely be 1999.” David Stewart MBE (The Balvenie) – Balvenie PortWood 21 Year Old "I would probably have a couple of glasses of white wine, generally a Chenin Blanc from South Africa. We've visited a number of vineyards near Cape Town in Stellenbosch. In the evening I would pour myself a couple of drams of Balvenie PortWood 21YO, my favourite, whilst watching Call the Midwife." Read more Editorial

After many of us were not able to see extended family and friends last year, this festive break will seem that much more special. We caught up with some of our favourite winemakers and distillers and asked them what top bottles they will be opening to celebrate this Christmas – and why

We find out the special bottles some of our favourite winemakers and distillers are uncorking this Christmas

What producers are drinking this Christmas

Burgundy is a mecca for lovers of fine Chardonnay and Pinot Noir, but, with its litany of producers and vineyards, it can be a tricky region to get to grips with. Here we offer an essential guide to the region – breaking down everything from how vineyards are classified to producers to look out for

Discover everything you need to know about Burgundy: from vineyards and producers to the difference between négociant and domaine or what a Grand Cru is

Your essential guide to Burgundy wine

Your essential guide to Burgundy

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