Ispirata da un russo, prima prodotta da un ungherese, poi da un francese e poi da un tedesco, la tradizione enologica di Masseto è stata decisamente internazionale, almeno fino ad ora. Da gennaio 2024, la principale azienda produttrice di Super Tuscan e gemella di Ornellaia ha avuto il suo primo autoctono al timone: Marco Balsimelli, nato ad Arezzo, non lontano da Siena, ha preso le redini dal direttore di produzione di lunga data Axel Heinz. 
Balsimelli vanta un illustre pedigree, avendo vissuto a lungo a Bordeaux, lavorando presso Gruaud Larose e, dal 2010, al fianco del celebre Eric Boissenot come enologo consulente per molte delle principali aziende della regione, ma l'opportunità di lavorare a Ornellaia e Masseto – nomi iconici della sua terra d'origine toscana – era un'opportunità che non poteva rifiutare. 
Fu André Tchelistcheff (enologo di origine russa di Napa Valley) a suggerire per primo a Lodovico Antinori che una particolare collina della tenuta di Ornellaia sarebbe stata perfetta per il Merlot. Tchelistcheff, consulente di Antinori, riconobbe il potenziale di quel terreno di argilla blu, lo stesso che è sinonimo di Pétrus. All'epoca, negli anni '80, il Merlot era scarsamente piantato in Toscana e rimaneva una quantità sconosciuta nella regione, con solo Castello di Ama, con sede più nell'entroterra del Chianti Classico, che possedeva alcune viti (oggi utilizzate per il suo vino di punta, L'Apparita). Ciononostante, il team di Ornellaia si arrischiò e piantò la maggior parte dei sette ettari di terreno argilloso nel 1984 (ulteriori impianti furono effettuati nel 1995). 
La ​​prima annata di Merlot da questa tenuta fu prodotta nel 1987: nacque il Masseto. Il nome deriva da "masso", che in italiano significa roccia, per i grandi ammassi di argilla simili a massi che punteggiano la superficie del vigneto. Non ci volle molto perché il vino ottenesse riconoscimenti internazionali, con Wine Spectator che assegnò all'annata 2001 100 punti, e il suo posto nella storia del vino si consolidò. Sebbene Tchelistcheff sia stato consulente fino al 1989, sostituito da Michel Rolland dal 1991, l'ungherese Tibor Gál fu il primo enologo della proprietà. A Gál successe Thomas Duroux (ora di Ch. Palmer), che nel 2005 passò il testimone ad Axel Heinz, l'enologo di origine tedesca che aveva preceduto Balsimelli. Anche la proprietà è cambiata di mano nel corso degli anni: la famiglia Mondavi ne ha acquisito una quota nel 1999, prima di acquistarla direttamente da Lodovico Antinori e venderla alla famiglia Frescobaldi, che ha acquisito la piena proprietà di Ornellaia e Masseto dal 2005. 
Molto potrebbe essere cambiato, ma il terroir è rimasto immutato. "È un sito davvero speciale", mi dice Balsimelli. L'argilla, fondamentale, domina lo strato superficiale del terreno, che è profondo solo circa un metro. Quando piove, l'argilla si gonfia, rendendo quasi impossibile lo sviluppo delle radici delle viti. Gli alti livelli di sodio nei terreni non fanno che accentuare il problema. "Per le radici, è una battaglia quotidiana", dice. È questa lotta, secondo lui, che si può assaporare nei frutti concentrati e ad alta acidità di questo sito. 
Anche il clima è fondamentale, trovandosi a soli 10 chilometri dal Mar Tirreno. Le fresche brezze marine fanno sì che la temperatura sia di circa 5 °C inferiore a quella della Toscana centrale, con un calo di circa 15 °C tra il giorno e la notte. Combinando questo con la luce riflessa dal mare, si ottiene una lunga stagione vegetativa, che preserva aromi e acidità, ma favorisce la maturazione fenolica: vini che combinano profumo e potenza. Circondato dai boschi, c'è un motivo per cui Masseto è gestito come un progetto completamente separato da Ornellaia, con una propria identità unica, anche se ha sempre condiviso un enologo (e, fino al 2019, una cantina) con la tenuta gemella. 
Per Balsimelli, il progetto ha rappresentato una nuova sfida. L'abbandono del ruolo di consulente – non più un semplice consulente prima di passare al progetto successivo, ma un semplice sostenitore di ogni decisione – aggiunge un nuovo peso di responsabilità. "Passo molto tempo a riflettere sulle questioni tecniche e sulle conseguenze", mi dice. Poiché la maggior parte del suo lavoro con Boissenot si era concentrato sulla Rive Gauche di Bordeaux, concentrandosi su blend a base di Cabernet provenienti da tenute più grandi, lavorare con una piccola proprietà, concentrandosi su un solo vitigno e diverse sottoparticelle, è un puzzle completamente diverso. L'approccio, per lui, è molto più borgognone, incentrato sull'espressione della purezza del sito e della sua argilla blu. "Bisogna essere perfetti con un solo tipo di terreno e un solo vitigno", spiega. La ricerca della perfezione è iniziata molto tempo fa a Masseto e oggi le viti hanno un'età media compresa tra i 20 e i 30 anni. Sono anche passati dal cordone speronato all'alberello, una tecnica sperimentata per la prima volta nel 2008, che hanno scoperto aiutare a mitigare gli effetti del riscaldamento globale (reagendo meglio in condizioni di siccità e proteggendo i frutti dal calore del sole). Coltivato biologicamente dal 2012, è stata posta particolare attenzione anche alla promozione della biodiversità in tutto il sito, anche utilizzando colture di copertura per ridurre la compattazione del suolo, aumentare l'organicità c e trattenere l'umidità nei terreni. 
La prima annata di Balsimelli è stata la 2024, che non uscirà prima del 2027. Ma è chiaramente entusiasta del sito, così come di come può modificare e migliorare un vino già lodato dalla critica e dai consumatori. "Quando assaggi vecchie annate di Masseto, puoi percepire l'eredità, assaporare il terroir", afferma – ed è esattamente ciò che vuole fare in futuro, incanalando la filosofia di Boissenot: comprendere un pezzo di terra e trovare la soluzione migliore per esprimerlo nel bicchiere. Per lui, quella soluzione consisterà nell'accentuare l'eleganza del vino. 
Fa notare come ci fosse – in tutto il mondo del vino – una tendenza verso basse rese e alti livelli di maturità nei primi anni 2000, ma le sue annate preferite sono quelle che hanno visto un maggiore equilibrio. Il 2006, ad esempio, è il suo preferito al momento: un anno con più precipitazioni, più vigore e, a suo dire, più energia. È un'annata che, a suo avviso, è "la chiave per il futuro". 
Il sito è in grado di maturare rapidamente e Balsimelli intende concentrarsi sulla freschezza, magari anticipando un po' la vendemmia, riducendo l'estrazione e abbassando le temperature di macerazione. Il 2022 è l'annata che uscirà a settembre: un vino che, a detta di Balsimelli, dimostra quanto sia buono il sito, performando anche in condizioni difficili come la calda stagione vegetativa del 2022. È, a suo dire, "la magia di Masseto". Magia che sia, ma Balsimelli è determinato a valorizzare ulteriormente questa tenuta speciale. 
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Spesso considerato il Petrus d'Italia, il Masseto è un vino senza eguali. In vista della nuova uscita, abbiamo incontrato Marco Balsimelli, oggi alla guida, per parlare di questo sito speciale e di cosa riserva il futuro al Super Tuscan.

Talking to the Super Tuscan’s new Production Director Marco Balsimelli about Masseto, Ornellaia sibling estate and its unique Merlot wines

The magic of Masseto - Marco Balsimelli

La magia del Masseto

Quando Alain Hudelot si ritirò nel 2008, fu suo nipote a prendere le redini della tenuta di famiglia, il Domaine Hudelot-Noëllat. Charles van Canneyt – allora appena ventenne e fresco di studi enologici – si ritrovò improvvisamente a gestire 10 ettari di vigneti e un’intera cantina. Ma non era un ventenne qualunque. Gradualmente modernizzando le attrezzature della tenuta e perfezionando la vinificazione (in particolare moderando l’estrazione), trasformò la reputazione del domaine. In breve tempo divenne noto come una delle stelle emergenti della Borgogna, con Domaine Hudelot-Noëllat presto tra i nomi più rispettati della regione. Non incline alla compiacenza, nel 2012 avviò un’etichetta négoce, offrendo un’ulteriore via per gli amanti della Borgogna di accedere al suo talento enologico. Oggi, insieme alla moglie Anne-Sophie, ha intrapreso una nuova sfida, acquistando una nuova proprietà: il Domaine des Chézeaux. Probabilmente non conoscerete il nome di questa tenuta di Gevrey-Chambertin, ma quasi certamente ne conoscerete i vigneti. La storia del Domaine des Chézeaux Il Domaine des Chézeaux fu creato da François Mercier nel 1982, anche se la famiglia possedeva vigneti a Gevrey-Chambertin dal 1928. Il nome della tenuta deriva dal Clos des Chézeaux, il vigneto recintato accanto al domaine. La famiglia era proprietaria terriera più che vinicola, quindi tutti i vigneti erano affittati – en métayage – ad altri produttori. Questa pratica è comune in Borgogna: i vignaioli che affittano i vigneti li gestiscono tutto l’anno e producono il vino, cedendo una parte della produzione (spesso circa un terzo) al proprietario come affitto. La storica tenuta crebbe dai possedimenti originari e, dal 1994, contava circa quattro ettari. I vigneti erano divisi tra tre produttori: Domaine Ponsot (poi Laurent Ponsot), René Leclerc e Domaine Berthaut (poi Domaine Berthaut-Gerbet). Ponsot affittava il lotto originale di 0,89 ettari di Griotte-Chambertin, così come i parcelle di Clos Saint-Denis*, Chambertin e Chambolle-Musigny Premier Cru Les Charmes. Domaine Berthaut affittava due Premier Cru di Gevrey-Chambertin (Les Cazetiers e Lavaux-Saint-Jacques) e i parcelle del villaggio, incluso il Clos des Chézeaux. Pur essendo tecnicamente un monopole, Berthaut non possedendo il terreno non poteva rivendicarne tale status. Prima della vendemmia 1994, la famiglia Mercier acquistò un altro lotto di Griotte-Chambertin, 0,68 ettari appartenuti a Suzanne Thomas di Thomas Bassot, ottenendo il maggior possedimento di questo Grand Cru. La famiglia Esmonin coltivava già le vigne, vendendo parte dei frutti a Jadot; i Mercier affittarono poi il lotto a René Leclerc (pur continuando la vinificazione di alcune bottiglie da parte della famiglia Esmonin fino al 1999). Una parte dei vini finiti era imbottigliata con l’etichetta Domaine des Chézeaux, ma identica a quella dei produttori Ponsot, Leclerc o Berthaut, spesso a un prezzo inferiore. Domaine des Chézeaux oggi Nel 2021 Charles van Canneyt riuscì ad acquistare la tenuta e i suoi prestigiosi vigneti. Con tutti i vigneti sotto contratto en métayage, la sfida successiva fu riottenerli – negoziando con ciascun produttore. Nel 2022 ottenne il monopole Clos des Chézeaux e Premier Cru Les Cazetiers, ma vendette i frutti. Nel 2023, recuperato un lotto di Griotte-Chambertin, realizzò i primi vini dalla proprietà. Nel 2024 riuscì a recuperare tutti i vigneti – aggiungendo Chambertin, Clos Saint-Denis e Chambolle-Musigny Premier Cru Les Charmes. Come parte delle negoziazioni, furono venduti i parcelle Lavaux-Saint-Jacques, alcune vigne di Gevrey-Chambertin village e due piccoli lotti di Griotte-Chambertin. I vigneti sono generalmente vecchi in tutta la tenuta, e coltivazione e vinificazione seguono gli stessi metodi di Hudelot-Noëllat: frutti totalmente diraspati e estrazione molto delicata. Le prime annate furono vinificate a Domaine Hudelot-Noëllat (ma affinano nelle cantine del Domaine des Chézeaux) e è iniziata la costruzione di una nuova cantina, prevista per la fine del 2025. Van Canneyt ha già notato una maturazione diversa delle uve a Chézeaux, con cantine fresche e umide che rallentano l’élevage e richiedono meno rabbocco. Prevede quindi di affinare i vini più a lungo rispetto a Hudelot-Noëllat. La tenuta mantiene il nome storico, ma con nuove etichette – per differenziare le bottiglie precedenti all’arrivo di Van Canneyt. Il nome ha la stessa origine di Echezeaux: chesaux – plurale di chesal (dal latino casellum o casalis) – che significa casa o edificio in pietra. I vigneti del Domaine des Chézeaux Oggi la tenuta conta circa tre ettari di vigneti, di cui oltre la metà Grand Cru, distribuiti su sei appellations: Gevrey-Chambertin Clos des Chézeaux: monopole di 0,5 ettari, alcune vigne quasi centenarie (piantate nel 1929), su pendio medio esposto sud-est, su suoli profondi argillosi e ghiaiosi. Gevrey-Chambertin Premier Cru Les Cazetiers: 0,216 ettari in due parcelle, nord 0,1615 e sud 0,045 ha. Chambolle-Musigny Premier Cru Les Charmes: circa 0,6 ha, con ulteriore parcella a Domaine Hudelot-Noëllat. Clos Saint-Denis Grand Cru: 0,3776 ha, comparirà nel 2024 con un solo barile, ora reimpiantato fino al 2029. Chambertin Grand Cru: 0,143 ha nel cuore del Grand Cru. Griotte-Chambertin Grand Cru: 1,264 ha, il lotto più grande del piccolo Grand Cru, cuore dell’appellation. Focus su Griotte-Chambertin Griotte-Chambertin, o En Griotte, è il più piccolo dei Chambertin Grands Crus (2,69 ha) e tra i più piccoli della Côte d’Or, insieme a La Romanée, La Romanée-Conti e La Grande Rue. Situato sotto Clos de Bèze, con esposizione nord-est, permette maturazioni lente, vini delicati, aromatici e profumati, meno muscolosi rispetto al tipico Gevrey-Chambertin. Suoli ghiaiosi e calcarei con argilla a pendio. Domaine des Chézeaux è il maggiore proprietario (1,246 ha, quasi metà del vigneto). Altri proprietari: Joseph Drouhin, Fourrier, Claude Dugat, Marchand Frères, Joseph Roty, Duroché, Laurent Ponsot e un investitore che affitta il lotto a Cécile Tremblay. L’origine del nome è dibattuta: “griotte” (ciliegia amarena) o “criotte” (piccola pietra calcarea nei suoli). Storia delle etichette Griotte-Chambertin Le bottiglie storiche sono state un segreto per gli insiders, spesso Ponsot o René Leclerc sotto altre etichette. 1982–1993: unico lotto di Griotte-Chambertin, affittato a Ponsot. 1994: prima annata con secondo lotto, affittato a René Leclerc, blendato con il primo. 1995–2001: due imbottigliamenti identici senza indicazione del produttore. Dal 2002: produttore indicato sulle etichette. Fino al 2004 due bottiglie, dal 2005 René Leclerc solo occasionalmente. Il futuro del Domaine des Chézeaux Nonostante la lunga storia per una tenuta moderna, è solo l’inizio. Con un vignaiolo talentuoso come Charles van Canneyt e vigneti così prestigiosi, la qualità è destinata a crescere e i vini diventeranno presto ambiti quanto quelli di Hudelot-Noëllat. Annate 2023 del Domaine des Chézeaux 2023 Gevrey-Chambertin Clos des Chézeaux: 0,5 ha, vigne quasi centenarie, frutto rosso intenso, fiori di iris e violetta, tannini fini e salinità nel finale lungo. 2023 Gevrey-Chambertin Premier Cru Les Cazetiers: vigne vecchie, vino delicato, minerale e floreale, frutti trasparenti e tannini minerali equilibrati. Cinque barili prodotti. 2023 Griotte-Chambertin Grand Cru: lotto più grande del Grand Cru, aromatico ed elegante, frutti rossi succosi, spezie dolci e leggeri toni tostati, struttura che richiede tempo. Debutto superbo. Tenete d’occhio le prime uscite dei vini del nuovo Domaine des Chézeaux; nel frattempo, scoprite di più sulla Borgogna.

Nel 2021 Charles van Canneyt del Domaine Hudelot-Noëllat ha acquistato il poco noto Domaine des Chézeaux. In vista della prima annata, esploriamo la storia di questa proprietà di Gevrey-Chambertin, destinata a diventare uno dei nuovi indirizzi più interessanti della Côte de Nuits.

Everything you need to know about this Gevrey-Chambertin wine estate, now owned by Charles van Canneyt of Domaine Hudelot-Noellat  

The new Domaine des Chezeaux, Gevrey-Chambertin 

Il nuovo Domaine des Chézeaux 

Burgundy expert Jasper Morris MW has had his finger on the region’s wine pulse for several decades. Especially for FONDATA, he profiles eight domaines to watch, producers that are bringing vital energy and fresh winemaking talent to the celebrated wine region 

Jasper Morris MW on eight of Burgundy’s most exciting domaines – including Eleni & Edouard Vocoret, Chantereves, Alvina Pernot and more 

The new Burgundians – Jasper Morris MW 

The new Burgundians

Ogni novembre, il mondo del vino guarda alla Borgogna per l'asta degli Hospices de Beaune. Ci immergiamo nella storia di questa istituzione filantropica, della tenuta e dei vini che produce.

Explore the history of Burgundy’s Hotel-Dieu and Hospices de Beaune, its wine estate and the famous annual auction, the Vente des Vins

Your guide to the wines of the Hospices de Beaune

Tutto quello che c'è da sapere sugli Hospices de Beaune

Over his 16-year career as CEO of the estate, Thomas Duroux has come to know Château Palmer’s identity, its nuances and its ability to evolve better than anyone. He has an intimate knowledge of the last 70 vintages of Château Palmer and admits he has already tasted the 2010 vintage more than 100 times during its evolution over the last 10 years. But the decision to release it 10 years on was not always the plan. Duroux says, “2010 is really one of the most extraordinary vintages, up there with the 2005, 2009, 2015 and 2016 but for me the 2010 is probably the most serious, deepest wine of all of them and I believed would require a long time to open up.”  But, on the final day of the 2019 vintage, as is tradition, Thomas holds a big party with the harvesters and always opens a special bottle of Château Palmer to share with them. “I don’t know why I decided on 2010 that day, but it turned out to be a flash of inspiration. The wine had changed so much from just a few months before, incredibly open, still deep. How wrong I was that it would remain closed for longer.”  The ageing potential of Bordeaux   Bordeaux’s capacity to age is extraordinary. No wine seems to retain freshness and structure for so long, with top vintages easily reaching their 50th anniversary and some twice as long. But with Bordeaux leading the way on scientific development and research within winemaking and a better understanding of its molecular make-up, the style of modern-era Bordeaux has certainly changed. This change in style has many questioning whether with these new techniques, the wines might open up earlier, but struggle to go the distance.  Despite 2010 Palmer entering its drinking window at just 10 years, Duroux has no concern over its longevity. “In the past, a wine with this depth would take time to open. I remember tasting the 1928 with Claude Chardon, the former manager of Château Palmer, and he said this wine took 30 years even to show up! The vintage was undoubtedly exceptional, producing massively concentrated berries, but the grapes were possibly not all picked at the right time. In those days the harvest started and every parcel was picked in one go.”  Today each parcel is monitored separately and – depending on the conditions – the harvest could last up to a month, with breaks in between as they wait for the perfect maturity, explains Duroux. Back then all the berries would have been extracted the same regardless of the vintage conditions, regardless of the different characteristics of the varying parcels. This laissez-faire attitude meant the wines would often shut down for many years. Today, with better understanding and a more precise approach, the wines’ extraction time varies, “Our pump-overs could be two hours or could be 10 minutes, with every tank assessed individually. Today the wines don’t have to go through that shock process that they used to.”   But Duroux believes the ingredients for long-ageing are still there, just without the extended dumb phase often found in the top vintages of the past. Duroux constantly monitors the development of Château Palmer and, as he has witnessed Palmer age, its drinking window isn’t simply a linear timeframe but goes through several, what he calls “drinking plateaus”.  Even in not-so-great vintages, the ageing of the wine is a fascinating exploration. “1957 as a vintage does not have a great reputation, but recently I tasted it and it was spectacular and totally different from three years ago. Yes, there will be disappointments – ’72 and ’73 will never reach a new plateau in their drinking life, but typically as Palmer ages, it will open and close with distinct drinking plateaus in between.”  The Palmer identity  With so much experience tasting Palmer through the ages, I’m fascinated to understand what it is Duroux believes defines Palmer in the glass. “There are many easy words,” he says. “Complexity, depth etc – but perhaps the two most distinctive elements are its aromatics and its distinct texture on the palate within a Margaux context. First and foremost Palmer has a very strong Margaux character defined by the softness and elegance of tannins. But in Palmer specifically, it is both fine but also textural – a velvet-like texture giving the wine more structure than is necessarily typical of Margaux. I believe it’s due to the unusual distinction at Palmer, that some of our best grapes come from are old Merlot vines grown on gravel – typically a soil kept for Cabernet Sauvignon.”  For Duroux the old Cabernet vines provide the precision, but it is these Merlot grapes that provide the distinct textural qualities of Palmer. Secondly, Palmer’s aromatic complexity remains a reliable trait. “The aromatic complexity will always come out of the glass when the vintage enters its drinking window,” testifies Duroux. Many believe they can recognise Palmer by its smell alone.   Thomas Duroux’s influence   In recent years Château Palmer has undoubtedly become one of Margaux’s most consistent producers and one of Bordeaux’s most collected wines. After 16 years at the helm, Duroux contemplates his proudest achievements at Palmer. “The first necessary change, which I believe has had a great impact at Palmer, was to not see Palmer’s vineyards as a whole – but to see Palmer as made up of separate and diverse vineyards. That we should act differently from one plot to another and then to reflect that diversity in the vineyard back in the winery. Every plot is now managed independently, treated independently, picked independently and vinified independently.”  Once the plots had been differentiated, Duroux’s second change was to have a global vision of what “our farm should be”. Most importantly, to bring life back to the soils. By working the vineyards biodynamically, Duroux says, “We have seen much more diversity, complexity and life in our soils, our cover crops, our trees and animals. We have brought more autonomy to the estate, each year relying less and less on bringing stuff from outside.” Today the estate fertilizes the vineyards from manure from their own cattle, “This is not a revolution but returning to how we farmed 100 years ago.”  These changes have not come without risk. As a biodynamic producer, Duroux explains, “We have fewer weapons to fight disease, but we have the feeling that with time we will limit the risk, we will not see mildew as a disease but as an imbalance in the vineyard.” The 2018 vintage was hugely difficult for Palmer, who lost two-thirds of their crop to mildew. The 2020 vintage brought similar mildew pressures but Duroux says they were nowhere near as affected, “We have learnt so much about our vineyard since 2018.”  Bordeaux’s developing market  Perhaps Duroux’s decision to re-release Palmer 10 years on will be his third big influence at Château Palmer. This decision will no doubt be carefully monitored by other châteaux, who like Duroux are aware the Bordeaux market is developing.  “In 2010 we recognised the market was changing. Releasing the wine en primeur, unfinished, receiving the wine two years later and storing the wine for 10 years before approaching it has been the norm for many years – but for many new customers, this was not how they liked to buy wine. Many people, for one, don’t have the storage capacity and also want to purchase wines ready to drink. From that point we began to hold back a little, rather than releasing all the wine en primeur. By 2014, we were holding back around 50% of the production and (apart from 2018 – where our production was down by two thirds), we have continued to do this, to this day.”   But these late releases are not set to replace en primeur at Palmer. “I still have a strong belief in the en primeur system,” says Duroux. “It is not about doing one or the other. Customers who invest in a product early should be rewarded for that price-wise. But at the same time we also need to cater for our other customers who want wines ready to drink.” For the 2010 at least, Duroux confirms this will be the last time you will be able to buy the vintage direct from the château.  The wine world watches as Duroux’s next step could not only have a huge impact on the future of Château Palmer, but could also influence how all Bordeaux is sold going forward.   Browse all current Ch. Palmer listings or read more Editorial

We caught up with Thomas Duroux the day before he was due to start harvesting the 2020 vintage to find out the reasoning behind the late 2010 release, what is set to become an annual event for the château.  

Thomas Duroux of Chateau Palmer on the reasoning behind the late 2010 wine vintage release, what is set to become an annual event for the Bordeaux château.  

Château Palmer interview

Thomas Duroux: Château Palmer interview

“Corriamo rischi ogni giorno,” mi dice Vanessa Martin. Se non sapessi che ci troviamo in una cantina, potresti pensare che Martin fosse una pilota da caccia, una vigile del fuoco o forse una doppiogiochista. Le due donne davanti a me, Martin e la sua collega Chantal Uldry, non incarnano necessariamente l’immagine dei temerari – ma tra le loro mani sono passate migliaia di bottiglie di uno dei vini più preziosi al mondo: Ch. d’Yquem. Non sarà questione di vita o di morte, ma questo liquido è così ambito che può sembrarlo. 
 L’unica tenuta di Sauternes o Barsac ad essere stata dichiarata Premier Cru Supérieur nel 1855, Ch. d’Yquem ha una lunga storia che risale al Medioevo. Il vino prodotto da questa proprietà, nel punto più alto di Sauternes, è stato elogiato per secoli. Fu gustato da personaggi come Thomas Jefferson nell’Ottocento, mentre Jay-Z e Beyoncé hanno fatto visita alla fine dello scorso anno. La proprietà e i suoi vini sono roba da leggenda, ricercati da appassionati e collezionisti di tutto il mondo. 
 La produzione di questo dolce nettare è meticolosa – le viti sono curate con attenzione durante l’anno, e l’uva viene raccolta solo se Madre Natura fornisce le condizioni giuste perché si sviluppi la botrytis cinerea, alias “muffa nobile”. Se tutto gioca a loro favore, con la giusta quantità di umidità e calore al momento opportuno, questo fungo si insinuerà nei grappoli, perforando la buccia, concentrando acidi e zuccheri negli acini, oltre a conferire i suoi distintivi aromi speziati e di marmellata d’arancia. La squadra di Yquem passerà tra i filari fino a sei volte, raccogliendo grappoli e acini singoli al giusto punto. Le rese sono minuscole, con all’incirca un solo bicchiere di vino prodotto da ogni vite. Una volta che l’uva è arrivata in cantina, pressata, fermentata e affinata in botte, con solo il meglio selezionato per l’assemblaggio finale, il vino deve essere imbottigliato ed etichettato – preparato per il suo debutto nel mondo. Ed è qui che entrano in scena Martin e Uldry, parte della squadra che garantisce che ogni bottiglia che lascia la proprietà sia degna del nome Ch. d’Yquem. 
 “Cerchiamo la perfezione,” mi dice Martin. Lavora nella tenuta da due decenni, avendo iniziato tra i vigneti prima di passare in cantina; ha lavorato con la storica enologa della proprietà Sandrine Garbay sulla vinificazione così come sull’imbottigliamento e l’etichettatura, e ora sotto l’attuale Maître de Chai Toni El Khawand. Martin, come Uldry, è del posto – e il vino è il mestiere della regione. I suoi genitori hanno lavorato tra le viti, così lei ha seguito le loro orme. Ma non le piaceva, trovava il ciclo annuale ripetitivo – fare le stesse cose anno dopo anno – e chiese di cambiare. “Questo lavoro, cambia ogni giorno,” mi dice del suo ruolo in cantina. “Vedo persone diverse ogni giorno; il mio lavoro cambia ogni giorno.” Osservare il lavoro della squadra è notevole. Sebbene oggi molto sia meccanizzato, tutto viene controllato da un membro umano del team. Martin preleva una bottiglia dalla linea per controllare un’etichetta, tira fuori un metro e sospira, prima di staccare con cura la retroetichetta e riapplicarla un millimetro più in alto sulla bottiglia. Guardo una loro collega allineare un righello contro una doppia magnum (tutti i grandi formati sono ancora etichettati a mano), riapplicando un’etichetta cinque volte per assicurarsi che sia perfetta. A un’altra postazione, una donna arrotola delicatamente ogni bottiglia in carta velina traslucida, avvolgendo ciascuna con lo stesso tocco leggero, prima di adagiarla con cura in una cassa. 
 Uldry era pronta a ritirarsi alla fine dello scorso anno, dopo 23 anni a Ch. d’Yquem. Come Martin, ha visto molti cambiamenti nella tenuta, con la sua evoluzione sotto LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy), che ha investito molto da quando ha acquistato la proprietà nel 1999. Ricorda quando lavavano le bottiglie a mano, e i macchinari erano molto più goffi – mentre ora l’operazione è molto fluida, con standard più elevati che mai. C’è stato un periodo in cui lo château faceva molto riconfezionamento – vecchie annate venivano rimandate per essere controllate, autenticate, colmate e reincorciate, oltre a essere eventualmente rietichettate, prima di essere rispedite a un negoziante o a un collezionista. Di conseguenza, sia Martin sia Uldry hanno visto bottiglie straordinariamente antiche e – per loro fortuna – hanno avuto la possibilità di assaggiarne alcune. Martin ha assaggiato la 1921, mentre l’esperienza di Uldry risale all’annata 1904 – vini che faticano a trovare le parole per descrivere. Ricordo Sandrine Garbay raccontarmi di una bottiglia dell’Ottocento che si trovava in una cantina in Spagna, ma fu accidentalmente rotta, e la squadra di sommelier chiamò urgentemente lo château, cullando la bottiglia mentre guidavano fino a Bordeaux, disperati di salvare il prezioso vino. “È motivo d’orgoglio che queste bottiglie vadano in tutto il mondo,” dice Uldry, quando chiedo della destinazione finale del vino che passa tra le loro mani. Sono ben consapevoli del valore del vino che maneggiano, dell’impatto di eventuali rotture e di quanto sia cruciale il loro ruolo. È, dopotutto, l’ultimo passo per queste bottiglie prima che lascino la tenuta, partendo nel mondo come ambasciatrici dell’eredità di Yquem. E molte delle bottiglie, se non la maggior parte, dell’annata 2021 (appena rilasciata) sopravvivranno a chi le ha realizzate. Come dice Martin, il loro lavoro non riguarda l’oggi – ma il domani: “Lo lasciamo alle generazioni che verranno.” 
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Per creare vini di livello mondiale serve un’attenzione maniacale ai dettagli, e questo vale anche per Ch. d’Yquem. Nell’ultima puntata della nostra serie dietro le quinte di Bordeaux, parliamo con chi garantisce che ogni bottiglia di oro liquido sia perfetta.

Exploring the art and craft of labelling each and every bottle of liquid gold from top Sauternes estate, Ch. d’Yquem – the world’s best sweet wine 

Gilding the future at Ch. d’Yquem

Doratura del futuro: Ch. d’Yquem

Few people have been lucky enough to be as immersed in Burgundy’s finest wines as Martin Donatsch. His father bought a pallet of top Burgundy, including those of Domaine de la Romanée Conti (DRC) and Armand Rousseau, every year from the early 1970s onwards. Martin’s birth in 1978 – a fantastic vintage in Burgundy – only encouraged his father to buy more, and Martin, now in his early 40s, has been enjoying wines from the family collection ever since. Just last week, he uncorked a 1978 DRC Echézeaux. This immersion has provided him with an extraordinary understanding of Chardonnay and Pinot Noir – something that has doubtless helped him become one of the world’s great emerging winemaking talents. Donatsch is one of a small number of producers growing Pinot Noir, Chardonnay and the native Completer grape in Bündner Herrschaft in Switzerland. This tiny Swiss valley, for the time being, remains largely unknown – but, as Donatsch certainly believes, it may just be one of the world’s last great regions for fine wine production.The altitude (500 to 700 metres above sea-level) sees the vines flower a week later than is typical in Burgundy, yet picking dates are three to four weeks later. This provides a much longer growing season, allowing for complex flavours and aromas to develop in the grapes. Despite the altitude, the grapes reach good levels of ripeness thanks to the warm, dry wind – known locally as a “foehn”, that sweeps through the valley. Unlike Burgundy, autumns here are dry, so there is rarely pressure to pick before rain arrives, allowing for additional hang-time. The altitude keeps the acidity high, offsetting the naturally slightly higher alcohol (typically around 14%), meaning the wines never feel overly alcoholic. While Bündner Herrschaft has been home to Pinot Noir since the 15th century, Donatsch – now in the hands of the fifth generation – has pioneered the quality revolution in the region. Martin’s father Thomas Donatsch was not only the first to – then illegally – plant Chardonnay in 1975, but also the first to introduce French barriques to Switzerland, influenced by his vigneron friend André Noblet, the winemaker at Domaine de la Romanée-Conti from 1945 to 1986. In the early 1970s, Thomas – a young 20-year-old about to take on the family winery – set off to learn from the best. Obsessed with Burgundy from a young age, he knocked on the door unannounced at Domaine de la Romanée-Conti. In a fortuitous set of circumstances, Noblet had just returned from his first ever holiday (in Gran Canaria) and the first extended time away from his beloved wines. He had missed his wine cellar so much during the trip, he couldn’t wait to return. Finding the young Donatsch sitting by the door and desperate to reacquaint himself with his wines, Noblet invited Thomas to spend the afternoon with him tasting the different cuvées from barrel. Martin believes his dad gained Noblet’s trust by initially criticising DRC’s Montrachet 1968. Tasting the wine Donatsch reportedly said, “There is no way this wine could come from the great Montrachet!” A little precocious, perhaps: fortunately Noblet agreed it wasn’t his finest vintage, but the result of experiments in the winery. It was the beginning of a lifelong friendship, with Donatsch returning to the DRC cellars every year. On each visit, Noblet would always pour him a glass of Montrachet 1968 and ask his opinion before tasting any of the other wines. It wasn’t long before Donatsch was buying a pallet of Grand Cru Burgundy every year (at that time a bottle of La Tâche was just over £35 a bottle). Noblet also started to help Donatsch improve his Pinot Noir – first by giving Thomas his first three French barriques. These weren’t just any old barrels though, they had previously held La Tâche and were made by François Frères – who at the time had just two customers, Domaine de la Romanée-Conti and Henri Boillot. Donatsch took the barrels back to Switzerland, and the winery has been using François Frères barriques ever since. I asked Martin why the introduction of French barriques in Switzerland was such a revolution for the region. At the time, he says, the Swiss wine schools were obsessed with cleanliness – teaching the importance of filtering wines, using protective winemaking methods and using stainless steel tanks even for the red wines. The use of barrels was the opposite; it meant no additional filtering and a more oxidative environment. Donatsch believes the introduction of barriques around the world revolutionised fine wine. Angelo Gaja was the first to do it in Italy; Torres the first in Spain; Mondavi in the US; and Keller in Germany. But Thomas Donatsch was doing this 10 years before any of them, thanks to the influence of André Noblet, as well as Jean-Bernard Delmas – the winemaker at Château Haut-Brion, another of Thomas Donatsch’s influential friends.  Speaking with Martin Donatsch, you can’t help but feel he has got all his priorities in order. The small size of his winery means he can control every aspect of production, while benefitting from the variety that a life in wine can offer. Producing just 35,000 bottles a year means that when he is not in the vineyard tending his crop, he is in the winery, or fulfilling orders and redesigning his website (graphic design is another passion of his). Being one of the country’s most prestigious winemakers he sells his wine into the country’s top restaurants and luxury hotels, who can’t get enough of his wine. Donatsch’s annual release of wines sells out in just hours. While this is a great sign of his talents, it is also why many people outside of Switzerland have never heard of, let alone experienced, the world-class Pinot Noir and Chardonnay from the winery. Despite the demand for the Donatsch wines, there are no plans to expand: firstly because the authorities won’t allow it, but second because Martin loves the “human” size of the business and doesn’t want to lose that. Martin is, however, keen for more people outside of Switzerland to taste them. Beyond the tiny volumes that make it as far as export, to source these extraordinary wines you’ll have to (when one can) visit the winery yourself. You may just, knocking on the cellar door unannounced, receive a welcome as warm as young Thomas Donatsch did at Romanée-Conti.  Browse the latest releases from Domaine Donatsch or explore more Editorial

There is such domestic demand for the wines of Domaine Donatsch that they are rarely seen outside Switzerland. Tucked in amongst the Alps, this property makes world-class Pinot Noir and Chardonnay that gives Burgundy a run for its money. Gavin Smith explores the extraordinary site 

Winemaker and Domaine Donatsch owner Martin Donatsch on his world-class Swiss Pinot Noir and Chardonnay that give Burgundy a run for its money.

Exploring Donatsch's world-class Swiss wines

The high life: Martin Donatsch

Schrader Cellars is one of Napa’s most decorated producers. The estate’s approach of pairing specific clones with the perfect site to produce the ultimate expression of Napa Cabernet has made it a critics’ darling – and the property is behind some of the most coveted fine wines on the market. To date, Schrader has received an astounding 35 100-point scores.  Schrader Cellers founder Fred Schrader and the estate’s winemaker Thomas Rivers Brown are huge fans of the To Kalon vineyard in Napa’s Oakville and much of the production from Schrader is concentrated on this single site, such is the obsession with the place and conviction in its quality.   To Kalon is home to some of Napa’s oldest vines and best Cabernet Sauvignon. There are more 100-point wines to originate from this vineyard than any other on the planet and many famous names have built their reputation on it. Schrader bottles different clones of Cabernet Sauvignon from this site, highlighting the nuance and personality that Napa Cabernet can achieve.  Stylistically, Schrader’s wines are immense, opulent and plushly textured, underpinned by elegant power. Schrader is high-octane Napa at its finest. It is immediately clear tasting through the range that these are precise wines. High alcohol, high levels of oak, high levels of concentration are all potential red flags when it comes to wine faults (these wines being much more volatile), but these Schrader bottlings are as clean as a whistle.   With a total production of just 2,500 to 4,000 cases each year, this is meticulous winemaking at its finest. It means winemaker Thomas Rivers Brown and his team can keep these high-octane wines protected from potential faults throughout fermentation and élevage, never losing the fruit clarity that so clearly defines these wines.  RBS is made entirely from the Cabernet Clone 337 from Beckstoffer To Kalon. Jason Smith – Schrader’s in-house Master Sommelier – explains that this clone is their most fruit-driven; it can achieve phenomenal levels of ripeness and is known for its bright, fruit-forward style. Tasting the 2017, the wine is super intense, though the power is measured, pulsing with energy that builds beautifully on the palate. The purity of fruit is impressive and the fruit flavours mesh so well with the new oak tones, while a distinct red fruit character dominates. It is beautifully balanced, despite its opulence. Due to Clone 337’s natural style, it spends less time in new oak – around 18-19 months.  CCS is made from Clone 4 Cabernet – also known as the Mendoza clone – in To Kalon. Clone 4 is known for its density on the mid-palate and is much more tannic and extracted than the RBS. The wine really does have a denser core and more intensity compared to Clone 337. The fruit character is also darker and much more brooding. The 2018 still has more to give and is a little clenched at the moment. The warmer 2018 vintage also would potentially emphasise that, but this is also the characteristic of the clone, built for longer ageing.  The Heritage Clone cuvée is made with Clone 31 – the original clone planted by Robert Mondavi in To Kalon. The 2019 is a breath-taking wine. This is perhaps partly due to 2019 being an incredibly expressive vintage, but what is most notable is how the intensity is matched by overriding freshness. The balance of concentration and acidity from Clone 31 (at least in this vintage) really gives the wine a distinct character. It is stunning – and the length is really quite something. Old Sparky is Schrader’s top cuvée – a mix of Fred Schrader’s favourite blocks from To Kalon curated and blended differently each year. To taste the 2012 out of magnum, a wine now with some bottle age, was a rare treat, but also confirmed the precision at work at Schrader. After 10 years in bottle the wine has fully unfurled, the tannins bring structure but are open-knit. The depth is extraordinary. There are the first signs of tertiary development but the aromas are still so pure. It is a heavenly bottle and such is its balance that it is going to age effortlessly, but why resist this any longer, it is perfect now.   Contrasting the three clonal wines side by side, it is undeniable that each of the wines have quite different personalities considering they are all Cabernet from the same vineyard and made by the same winemaker. When it comes to personality, the Heritage Clone bottling really stands out, but matches the other bottlings for its plushness and amazing fruit clarity. Old Sparky, as a blend of clones, also shows how well they can work together. Understanding the effects different clones have on wine flavour, structure, concentration and ageing potential is one more aspect to a wine’s make-up that, while not often so publicly addressed as with Schrader’s bottlings, has played an instrumental part over the last 20 years in building fine wine’s complexity.  The latest vintage from Schrader is released each autumn. Find out more about the estate and browse all current listings of back-vintages, or read more about California 

Top Napa estate Schrader Cellars has championed the use of individual clones of Cabernet Sauvignon in its quest for quality. Tasting through the range with the property’s own Master Sommelier Jason Smith, we explore how these pioneering wines have won the hearts of oenophiles around the world

Talking to Master Sommelier Jason Smith about Schrader Cellars’ use of single-clone To Kalon Cabernet Sauvignon to make the finest Napa wine

Clonal Cabernet Sauvignon with Schrader Cellars

Talking clonal Cabernet with Schrader Cellars

Domaine Thomas-Collardot

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