William Kelley + Yohan Castaing – Wine Advocate Ancora una volta, la copertura del Bordeaux en primeur di Wine Advocate è condivisa da William Kelley e Yohan Castaing, con entrambi che forniscono i punteggi, ma con Kelley che scrive il rapporto della pubblicazione. È significativo che il punteggio potenziale più alto assegnato a qualsiasi 2024 sia 94-96, con oltre la metà dei vini al di sotto di 90: nelle parole di Kelley, l’annata – che “ha messo alla prova i limiti dei viticoltori” – “ha prodotto pochi vini convincenti”. Sebbene ci siano alcuni “successi notevoli”, la coppia ritiene che questa sia “chiaramente la vendemmia più debole di Bordeaux dell’ultimo decennio”, con molti vini “diluiti, erbacei e aspri”. 
 L’annata non è omogenea, e Kelley lo attribuisce semplicemente ai livelli di maturità. Sostiene che quei produttori che “hanno osato aspettare” per vendemmiare sono stati ricompensati. È chiaro, tuttavia, che nessuna varietà o sotto-regione in particolare sia andata particolarmente meglio nel 2024, con l’annata giudicabile solo a livello di produttore. I migliori 2024 sono, per Kelley, “pesi medi intensamente saporiti con buona struttura ed energia, che mostrano acidità integrata e tannino maturo”. Sebbene i peggiori abbiano un’acidità che può essere “stridente”, con “tannini astringenti e un marcato carattere di pirazine”, alcuni – in gran parte da siti a maturazione precoce vendemmiati tardi – “possiedono una densità e un’ampiezza di centro bocca che trascendono l’annata”. La vendemmia è, tuttavia, “un ritorno al passato”, più vicina a quelle degli anni ’90 che a qualcosa di più recente. L’élevage dovrebbe aiutare a dare maggiore pienezza ad alcuni vini, ma Kelley è cauto riguardo alla fragilità dei vini – e prevede che “amplificherà solo il divario tra i migliori e il resto”. 
 I punti salienti di Kelley: Cheval Blanc, La Conseillante, Pontet-Canet, Les Carmes Haut-Brion 
 Esplora il rapporto completo di Kelley, le note e i punteggi su Wine Advocate (solo abbonati) Jane Anson – Inside Bordeaux Per Anson, il 2024 ha superato le sue aspettative: sebbene, riconosce, ci siano “molte bottiglie deludenti”, l’annata è migliore del 2013 e – nei casi migliori – del 2021. Ritiene che ci siano “più successi complessivi sulla Rive Droite che sulla Sinistra, semplicemente perché è molto difficile mascherare un Cabernet non maturo”, e in generale i secondi vini non sono consigliati quest’anno, con un notevole salto di qualità. Nei migliori rossi, l’acidità dona “succo, muscoli e salinità”, con il Médoc che offre Claret lineari, “floreali, fragranti, sfumati”. Evidenzia in particolare la qualità di Saint-Julien e osserva che ci sono “molti vini eccellenti” a Pauillac, mentre Saint-Estèphe è più variegata. 
 La Rive Droite ha prodotto il suo vino dell’annata – Eglise-Clinet – ma osserva come Pomerol sia variegata, con alcuni vini di successo che sono “favolosi, elevati, aromatici, di grande qualità” e altri meno riusciti, generalmente con i migliori provenienti dall’altopiano interno. A Saint-Émilion, osserva come l’austerità naturale del calcare abbia dovuto essere gestita – ma “ci sono molti vini gustosi, di successo seppur slanciati” nell’appellazione. 
 Sottolinea la qualità dei bianchi nell’annata, sia dolci che secchi, con “maggiore coerenza e molti vini eccellenti”. I bianchi secchi offrono grandi aromaticità, ma non hanno la densità dei migliori vini, da cui il suo tetto ai punteggi. Descrive i vini dolci come “meno lussureggianti dei 2022 e 2023”, ma con “molti vini equilibrati, deliziosi e pieni di piacere”. 
 I punti salienti di Anson: Eglise-Clinet, La Mission Haut-Brion Blanc, Coutet, Pavillon Blanc, Les Champs Libres, Margaux, Léoville Poyferré, Brane-Cantenac, Ausone, Laroque, Couvent des Jacobins, La Prade, Vieux Château Saint André, L’If, Pagodes de Cos Blanc, Rieussec, Suduiraut, Clos Albus, Les Hauts de Smith Blanc, Les Charmes-Godard 
 Esplora il rapporto completo di Anson, le note e i punteggi su Inside Bordeaux (solo abbonati) Antonio Galloni – Vinous Galloni è il primo dei due autori di Vinous a pubblicare il proprio rapporto sul Bordeaux 2024. Sebbene ammetta che i vini siano “ovunque in termini di qualità e stile”, ritiene anche che “i migliori vini abbiano molto da offrire”. Dopotutto, “il meteo non è più l’elemento critico nel determinare la qualità dei vini e quindi di un’annata”. 
 Sottolinea quanto sarà fondamentale l’élevage nello sviluppo dei vini, aspettandosi “un livello molto alto di variabilità nei vini finiti” – ritenendo, come indica il titolo del suo rapporto, che molti dei vini stiano su un “filo del rasoio”. Galloni descrive i 2024 come aromatici, tendenti al frutto rosso, con i migliori che “trasudano equilibrio” – sebbene alcuni possano essere “eccessivamente leggeri”, rendendo l’annata “frustrantemente irregolare”. Tuttavia, è “ben lontana dal totale disastro” suggerito. Per lui è un anno in cui la Rive Gauche e il Cabernet sono fioriti, evidenziando i vini di Saint-Estèphe e Pauillac, e trovando quelli di Pomerol e Pessac-Léognan i più variabili. 
 Sottolinea la qualità dei bianchi secchi nel 2024, che sono “tra i migliori” dell’annata e possono essere “davvero eccezionali”, offrendo al contempo un valore relativo. Quanto ai dolci, sono – per lui – molto buoni, ma non straordinari, non avendo il “fattore brivido degli anni davvero migliori”. 
 I punti salienti di Galloni: Beychevelle, Clos Puy Arnaud, Cos d’Estournel, Jean Faure, Larcis-Ducasse, Lascombes, La Conseillante, Rauzan-Ségla 
 Esplora il rapporto completo di Antonio Galloni, le note e i punteggi su Vinous (solo abbonati) Neal Martin – Vinous Sulla scia del rapporto di Galloni (sopra), Neal Martin copre la stagione di crescita definita dalla sua quantità “biblica” di pioggia. Ritiene che il 2024 sia “una buona annata con limitazioni”, osservando che i vini sono incoerenti e che la “stagione malefica… amplia il divario tra chi ha e chi non ha”. Sottolinea che a trionfare non è stato il miglior terroir, ma “chi aveva le tasche più profonde e chi ha preso le decisioni giuste nei momenti giusti” – e anche allora, è “una stagione di crescita impossibile da trascendere”. 
 Come altri, nota quanto diversa sarebbe stata l’annata solo un paio di decenni fa, osservando che è “inequivocabilmente di gran lunga superiore” a annate come 1984, 1992 o 2013. Sebbene non sia coerente, ammette che ci sono vini che “sfiorano il cielo”, e i migliori sono “belli” – offrendo aromi “delineati e focalizzati”, vini equilibrati in cui una “spina dorsale di acidità dona portamento”, con “ampia freschezza e sapidità”. Sono, scrive, “vini ideali da ristorante che offriranno un piacere di beva facile mentre aspettate che i 2019 o i 2022 maturino”. 
 Martin evidenzia la qualità dei bianchi secchi – con condizioni fresche che producono “Sauvignon Blanc/Sémillon avvincenti e tesi che spesso superano le loro controparti rosse”. Per quanto riguarda Sauternes, riferisce che sono molto buoni, ma non classicamente opulenti, piuttosto “pieni di freschezza e purezza”. 
 I punti salienti di Neal Martin: Vieux Château Certan, Lafleur, Eglise-Clinet, Lafite Rothschild, Margaux, Montrose, La Mission Haut-Brion Blanc, Domaine de Chevalier Blanc, Malartic-Lagravière Blanc, Le Blanc de Lafite, Les Champs Libres, Doisy-Daëne, Coutet, Guiraud, Suduiraut 
 Esplora il rapporto completo di Neal Martin, le note e i punteggi su Vinous (solo abbonati) James Suckling Per James Suckling, degustare il 2024 è stata un’esperienza nostalgica – che gli ha ricordato le “versioni moderne di anni come il 1985 o il 1995”. Sebbene lo consideri tra le annate più eterogenee che abbia assaggiato, descrive i migliori 2024 come dotati di “tannini fini e un carattere croccante e brillante”, “lineari e freschi” con “acidità vivida”, osservando che saranno approcciabili presto. I migliori, ritiene, provengono da siti a maturazione precoce con le grandi squadre necessarie per affrontare l’annata. Ritiene che i bianchi secchi, nel frattempo, siano da molto buoni a eccellenti – con Haut-Brion Blanc e Pavillon Blanc tra i suoi vini con i punteggi più alti. 
 I punti salienti di Suckling: Haut-Brion Blanc, Evangile, Lafleur, Latour, Pavillon Blanc, Angélus, Ausone, Cos d’Estournel, Haut-Brion, Eglise-Clinet, La Mission Haut-Brion, Léoville Las Cases, Les Carmes Haut-Brion, Margaux, Mouton Rothschild, Pétrus, Smith-Haut-Lafitte Blanc, Vieux Château Certan 
 Esplora il rapporto completo di James Suckling, le note e i punteggi sul suo sito (solo abbonati) Lisa Perrotti-Brown MW – The Wine Independent Il titolo per Lisa Perrotti-Brown MW è che i migliori rossi del 2024 sono “di corpo più leggero, dalla trama morbida, rinfrescanti e profumati”, mentre ci sono “molti spettacolari vini bianchi secchi e piccole quantità di eccellenti vini da Sauternes”. Osserva come i vini abbiano generalmente tannini maturi, ma che la maturità del gusto sia stata più impegnativa – e ha portato a “molti rossi buoni, deliziosi, bevibili, se non sbalorditivi”, sebbene “molti non abbiano gli strati di sapore o l’intensità di un vero grande vino”. 
 Una cosa emerge chiaramente per lei: “I livelli di qualità sono ovunque.” Come noi, ritiene che la Rive Droite sia più coerente e osserva che “molti vini eleganti, brillanti, rinfrescanti, dalla trama morbida e profumati” provengono da Saint-Émilion e Pomerol. Sulla Rive Gauche, trova che la qualità diminuisca allontanandosi dalle terrazze ghiaiose e dai terroir più fini, sebbene molte Classed Growths abbiano prodotto vini “degni del loro status” anche se in uno stile più leggero rispetto agli anni recenti. 
 I bianchi secchi sono, per lei, “il lato positivo” dell’annata – notandone la coerenza e la qualità. Trova che molti abbiano “un senso di armonia senza sforzo”, con aromaticità e acidità preservate dalle condizioni più fresche. Evidenzia numerosi bianchi secchi da tenere d’occhio – elencati sotto. La qualità a Sauternes e Barsac è “eccellente”, scrive, ritenendo che l’ossatura acida inietti “vivacità” nei vini, portando a un maggiore equilibrio rispetto alle annate più calde. I migliori hanno “grande intensità di sapore, molta complessità instillata dalla botrite e ossature scattanti” – e sono vini che vale davvero la pena cercare. 
 I punti salienti di Lisa Perrotti-Brown MW: Figeac, Haut-Brion Blanc, Smith Haut Lafitte Blanc, La Mission Haut-Brion Blanc, Pavillon Blanc, Eglise-Clinet, Montrose, Trotte Vieille, Pape Clément Blanc, Domaine de Chevalier Blanc, Valandraud Blanc, D’Aiguilhe Blanc, Larrivet Haut-Brion Blanc, Suduiraut Pur Sémillon, Les Champs Libres, Cos d’Estournel Blanc, Lespault-Martillac Blanc 
Esplora il rapporto completo di Lisa Perrotti-Brown MW su The Wine Independent (solo abbonati) Georgie Hindle – Decanter La copertura di Decanter viene rilasciata gradualmente e finora include un rapporto sulla stagione di crescita, oltre a una prima occhiata agli stili prodotti dall’annata. Georgie Hindle afferma che è più vicina nello stile al 2021, guardando alle annate recenti, tuttavia evidenzia l’estate più secca e calda che la differenzia. Sottolinea che l’annata non è uniforme e che i vini sono generalmente plasmati da una “freschezza tesa e minerale” piuttosto che da profondità di frutto o opulenza. Dice che i migliori “offrono lampi di precisione aromatica, eleganza e chiarezza rinfrescante con struttura e lunghezza” – “raggiungono un equilibrio tra frutto, acidità e tannini”. Molti sono deboli o esili e – come noi e altri abbiamo sottolineato – non si può generalizzare quest’anno – e non dovrebbe essere un’annata da scartare, esorta. 
 Non ritiene che i bianchi secchi se la siano cavata meglio dei rossi, con risultati similmente misti – ma alcuni vini riusciti che sono aromatici e accattivanti. Per quanto riguarda i vini dolci della regione, offrono “una facilità di beva”, ma non tutti hanno “la densità e la consistenza delle annate più forti”. 
 Esplora la copertura di Georgie Hindle su Decanter (solo abbonati) Colin Hay – The Drinks Business Questo è il primo anno in cui includiamo The Drinks Business. Una pubblicazione di settore, ha ampliato la sua copertura di Bordeaux e relativamente di recente ha iniziato a dare punteggi ai vini, il tutto affrontato da Colin Hay. Nonostante la stagione di crescita impegnativa, sostiene che “coloro che hanno avuto sia le risorse – umane e finanziarie – e soprattutto l’acume per rispondere alle sue prove e tribolazioni hanno trionfato”. Sebbene nella fascia più bassa dell’albero della qualità trovi i vini deludenti e l’annata lontana dall’essere uniforme, scrive che “in cima alla piramide” ci sono “vini che trascendono le sfide dell’annata” – “pienamente maturi, eleganti, raffinati, altamente aromatici, con tannini morbidi, delicati e finemente grigliati e una succulenza, chiarezza e brillantezza davvero rare”. Li trova “notevoli” – anche senza il contesto dell’anno. Sebbene non raggiungano le vette del 2019, 2020 o 2022, ritiene che i vini possano essere favorevolmente paragonati ad altre annate recenti – anzi, ritiene che i migliori stiano sopra i vini del 2001, 2002, 2003, 2004, 2006, 2007, 2008, 2011, 2012, 2013, 2014, 2017 e 2018. 
 Scrive che sebbene i vini siano “probabilmente altamente accessibili in gioventù”, “hanno comunque un potenziale di invecchiamento piuttosto significativo”. È un altro a ritenere che l’annata sia leggermente più forte sulla Rive Droite, e a entusiasmarsi per i bianchi (“unici e spettacolari”, “un indubbio punto culminante dell’annata” che mette allo stesso livello del 2017 e 2021) e per i vini dolci (sebbene ammetta che siano meno coerenti). Sebbene vi siano eccezioni, Pauillac è “la meno lusingata dall’annata”, e può risultare austera. Ha riscontrato che le tenute di Saint-Estèphe sembrano aver abbracciato l’annata, trovando diversi punti salienti – tra cui Montrose, “un vino di sbalorditiva profondità e originalità, e al contempo di una bellezza eterea e aerea e di profonda complessità aromatica”. A Saint-Julien, trova “una rassicurante dolcezza del frutto e una cremosità nocciolata”, affrontando meglio l’annata, come ha fatto anche Margaux, offrendo molta “grazia e tipicità”. Trova i rossi di Pessac-Léognan e Graves particolarmente eterogenei, sebbene ritenga che le persone ricorderanno l’annata per i suoi bianchi. 
 Sulla Rive Droite, Hay riscontra che i migliori di Pomerol “non indicano nulla delle difficoltà della stagione di crescita”, con proporzioni elevate di Cabernet che forniscono “un’ulteriore spinta aromatica e floralità”. A Saint-Émilion, scopre anche molti vini che trascendono l’annata, “molto più omogenei” del previsto, soprattutto rispetto alla Rive Gauche, e molti di essi rientrano nel suo sistema di classificazione – suggerendo che sia “una garanzia di qualità impressionante per il consumatore”. 
 I punti salienti di Colin Hay: Mouton Rothschild, Montrose, Cos d’Estournel, Gruaud Larose, Palmer, Lafleur, Le Pin, Petrus, Eglise-Clinet, Trotanoy, Bélair-Monange, Rocheyron, Cheval Blanc, Figeac, Angélus, Beauséjour, Larcis-Ducasse, Pavie, Les Carmes Haut-Brion, La Mission Haut-Brion Blanc, Smith Haut Lafitte Blanc, L’Extravagant de Doisy-Daëne, Lafaurie-Peyraguey, Suduiraut
 Esplora il rapporto completo di Colin Hay, le note e i punteggi su The Drinks Business Jeb Dunnuck Sebbene il 2024 sia stata un’annata difficile, ha prodotto “vini affascinanti, di medio corpo, pronti, moderatamente concentrati”, scrive Dunnuck. Paragona la qualità al 2021 ma con maggiore “apertura e morbidezza”, ritenendo che non sia né un anno da Rive Gauche né da Rive Droite, ma uno che deve essere analizzato per tenuta. Ritiene tuttavia che Pessac sia “una gemma splendente dell’annata”. I vini puntano “all’approcciabilità più che alla densità”, e i vini a base Merlot della Rive Droite mostrano bene il loro terroir, mentre Pomerol ha uno stile più scuro. Sulla Rive Gauche, similmente, non sono vini esplosivi, ma – dice – “piaceranno certamente a chi rimpiange i tempi andati degli anni ’80 e ’90”, e “offriranno indiscutibilmente ampia bevibilità e longevità”. Suggerisce che possano seguire una traiettoria simile ai 2001, vini “che bevono magnificamente oggi” – e alcuni “hanno un equilibrio e un’armonia che potrebbero sorprendere”. 
 Per quanto riguarda i bianchi, sebbene ci siano “alcuni bianchi brillanti”, non è universale – un’annata buona piuttosto che grande. E questo è vero per l’annata in generale, a suo avviso: consiglia acquisti selettivi, ma ci sono buoni vini degni di attenzione. 
 I punti salienti di Jeb Dunnuck: Figeac, Haut-Brion, La Conseillante, Lafaurie Peyraguey Coeur de Terroir, Pavillon Blanc, Mouton Rothschild, Pape Clément, Suduiraut, Suduiraut Pur Semillon, Valandraud Blanc Esplora Bordeaux 2024

Mentre si aprono le porte alle uscite di Bordeaux 2024, i principali critici enologici del mondo esprimono le loro opinioni sull'annata. Qui troverete un riepilogo di ciò che Wine Advocate, Vinous e altri hanno detto finora sull'annata, e i vini che hanno valutato più positivamente.

Your essential crib-sheet to what the world’s leading wine critics are saying about Bordeaux 2024 en primeur–including Wine Advocate, Vinous,Decanter and more

Bordeaux 2024 en primeur – what the critics are saying 

Bordeaux 2024: cosa dicono i critici

While Bordeaux’s Left Bank was classified in 1855, the Right Bank didn’t establish an equivalent ranking until the 1950s. There are classifications for the Graves, Sauternes and Barsac, as well as the Médoc across the Gironde, but it is only Saint-Emilion that has been classified on the Right. How does Saint-Emilion’s classification work?  The classification was first established in 1955, dividing the appellation’s properties into three levels of quality based on a scoring system. The top wines are classified as Premier Grand Cru Classé A, followed by those that are Premier Grand Cru Classé B and then the Grand Cru Classé.  From the beginning, the idea was to try and create a more democratic system that rewarded estates’ efforts and avoided complacency. While the 1855 Classification was assigned to the château – essentially the brand, rather than the wine or specific vineyards (meaning properties could expand and shrink, yet their status wouldn’t change), the Saint-Emilion classification is judged both on terroir and the château’s performance. The classification is also reassessed every 10-15 years, with the most recent update in 2022. How are properties in Saint-Emilion classified?  As mentioned, the ranking of estates is based on a scoring system, out of 20.  For the Premiers Grands Crus Classés, the score is based on: a tasting of 15 vintages (representing 30% of the score); the property’s national and international reputation, its promotion and distribution (35%); the quality and consistency of the terroir (30%); and the property’s approach to viticulture, vinification and traceability (5%). To sit within this bracket, estates must earn 16 out of 20, with the best earning Premier Grand Cru Classé A status.  For the Grands Crus Classés, the score is based on: a tasting of 10 vintages (representing 50% of the score); the property’s national and international reputation, its promotion and distribution (20%); the quality and consistency of the terroir (20%); and the property’s approach to viticulture, vinification and traceability (10%). In essence, there is more focus on the tasting and the property’s practices, and less on terroir or its reputation and representation in the market. To achieve Grand Cru Classé status, a property must earn 14 out of the possible 20 points.  Because there is a detailed assessment of the soils, properties can have some but not all of their land classified. For example, Ch. Angélus had only 27 of its 39 hectares deemed worthy of Premier Grand Cru Classé A and Ch. Canon only has 24 of its 34 hectares classified as Premier Grand Cru Classé B. Why is Saint-Emilion’s classification controversial?  While the intention to try and create a classification system that was both dynamic and about the land was noble, it hasn’t quite worked out that way. There is much debate about the different factors that contribute to a property’s score, with the proportion tied to distribution and marketing a particular point of contention. With its constant evolution, this gives more room for controversy – with anyone demoted inevitably disgruntled. All in all, the result is a legal battleground, with accusations of undue influence and more.   The initial classification took three years to finalise, and it has since been re-drawn in 1969, 1986, 1996, 2006, 2012 and 2022. After the 2006 classification, five estates filed lawsuits against their demotion, while the 2012 only brought more cases to the courts.   Ahead of the 2022 classification, most of the Premier Grand Cru Classé A estates left the classification (Ch. Ausone, Ch. Angélus and Ch. Cheval Blanc), leaving just Ch. Pavie in the top rank of the classification, joined by Ch. Figeac in 2022. Read more about the classification’s recent controversies here. What about Saint-Emilion Grand Cru? Saint-Emilion Grand Cru is – confusingly – very different to Saint-Emilion Grand Cru Classé. This isn’t a classification but an appellation – one that has the exact same geographic area as Saint-Emilion AC.  Properties need to apply to be part of the classification but can otherwise make wine under the area’s two appellations – Saint-Emilion AC or Saint-Emilion Grand Cru AC.   “Grand Cru” status is not tied to the quality of the terroir but dictated by yields (a lower maximum of 40hl/ha), a higher minimum potential alcohol and longer minimum ageing requirements (only permitted to be bottled 16 months after harvest), and must be estate-bottled. The idea is that this leads to a higher-quality, richer wine. The current Saint-Emilion classification The latest iteration of the Saint-Emilion classification was announced in 2022, with just two properties sitting at Premier Grand Cru Classé A level and 12 at Premier Grand Cru Classé B, and 63 Grands Crus Classés. Find the full list of estates below. Premier Grand Cru Classé A Ch. Pavie   Ch. Figeac   Premier Grand Cru Classé B   Ch. Beau-Séjour Bécot  Ch. Beauséjour Duffau-Lagarrosse  Ch. Bélair-Monange  Ch. Canon  Ch. Canon-la-Gaffelière  Ch. Larcis Ducasse  Ch. Pavie Macquin  Ch. Troplong Mondot  Ch. TrotteVieille  Ch. Valandraud Clos Fourtet  La Mondotte  Grand Cru Classé Ch. l’Arrosée   Ch. Balestard la Tonnelle  Ch. Barde-Haut  Ch. Bellefont-Belcier  Ch. Bellevue  Ch. Berliquet  Ch. Cadet-Bon  Ch. Cap de Mourlin  Ch. le Chatelet  Ch. Chauvin  Ch. Clos de Sarpe  Ch. la Clotte  Ch. la Commanderie  Ch. Corbin  Ch. Côte de Baleau  Ch. la Couspaude  Ch. Dassault  Ch. Destieux  Ch. la Dominique  Ch. Faugères  Ch. Faurie de Souchard  Ch. de Ferrand  Ch. Fleur Cardinale  Ch. La Fleur Morange Mathilde  Ch. Fombrauge  Ch. Fonplégade  Ch. Fonroque  Ch. Franc Mayne  Ch. Grand Corbin  Ch. Grand Corbin-Despagne  Ch. Grand Mayne  Ch. les Grandes Murailles  Ch. Grand-Pontet  Ch. Guadet  Ch. Haut Sarpe  Clos des Jacobins  Couvent des Jacobins  Ch. Jean Faure  Ch. Laniote  Ch. Larmande  Ch. Laroque  Ch. Laroze Clos la Madeleine   Ch. la Marzelle  Ch. Monbousquet  Ch. Moulin du Cadet  Clos de l’Oratoire  Ch. Pavie Decesse  Ch. Peby Faugères  Ch. Petit Faurie de Soutard  Ch. de Pressac  Ch. le Prieuré  Ch. Quinault l’Enclos  Ch. Ripeau  Ch. Rochebelle  Ch. Saint-Georges-Cote-Pavie  Clos Saint-Martin  Ch. Sansonnet  Ch. la Serre  Ch. Soutard  Ch. Tertre Daugay  Ch. la Tour Figeac  Ch. Villemaurine  Ch. Yon-Figeac   Read more about Bordeaux or browse all Bordeaux listings 

Bordeaux’s Right Bank wasn’t classified in 1855, but Saint-Emilion introduced its equivalent system in 1955, ranking the appellation’s best properties. Here’s everything you need to know about the Saint-Emilion classification, how properties are ranked – and why it’s so controversial

Everything you need to know about the Saint-Emilion classification – the official ranking of this Right Bank appellation’s top wine estates

Your guide to the Saint-Emilion classification

I am too disorganised to call myself a collector, but I often find myself thinking about the multiple meanings of collecting. I have a room full of books left unread from one year to the next, whose mute reproach I feel every time I am in their presence. I have half a dozen radios, from Marco Zanuso and Richard Sapper’s folding Brionvega TS502 to a Danish-made Beolit 707 from Bang & Olufsen, with its slide rule tuning device. I have a manual typewriter.  Most of us accumulate such random clutter. These were never possessions that were primarily about being useful – the Brionvega and the Beolit have long since been supplanted by a bluetooth speaker and a smartphone. They represent my membership of the design tribe.  The books carry other layers of meaning. My five years at university are on one shelf. The traces of the eight years I have spent writing a just-completed biography of Boris Iofan – Josef Stalin’s preferred architect – are spelled out in the titles of the books on another shelf. The typewriter was inherited from my father and it serves to remind me of childhood. The closest that I come to having a collection that a serious collector might acknowledge is in my chairs: a Rover chair that Ron Arad salvaged from a car, a Gio Ponti Superlegera, an Eames Lounger, a Harry Bertoia, George Sowden’s Palace chair from the 1983 Memphis collection and a deconstructed armchair designed by Rei Kawakubo. On a larger or smaller scale, humans develop complex relationships with their possessions that can go from the professionalism of full-blown collecting, to the casual significance of a row of junk shop finds on a mantlepiece. They can tell us a lot about ourselves. Marina Warner’s guide to the house in Hampstead, now run as a museum, in which Sigmund Freud spent the last year of his life, offers an arresting insight into the significance that collecting had for him. She describes the ranks of ancient bronze, ceramic and marble figures parading across the desk that Freud brought with him to London from Vienna where he no longer felt safe due to Nazi occupation in 1938. Certainly, they are beautiful, and mostly they are precious. Thanks to their association with Freud, even the few that have been established as 20th-century forgeries will have become valuable. Some are almost 4,000 years old and reflect the religious and political practices of the distant past. Others, such as Freud’s art deco cigar case, come less freighted with history. But as Warner says, “they were also tools of thought, the kitchen utensils of his imagination”.   The batterie de cuisine of psychoanalysis included Egyptian coffin masks from the Roman period, Chinese jade and gold brooches, Roman glass, a 2,500-year-old sphinx, sarcophagus lids, Babylonian cylinder seals and Egyptian heart scarabs, as well as a 19th-century neck rest from New Guinea, modern metal porcupines, and Balinese figures. The pieces in pride of place on his desk, placed in apparently random order, were his special favourites, a tiny fraction of his collection that had become permanent fixtures. From time to time, Freud made space for a few new acquisitions to get a look in. “A collection to which there are no new additions is really dead,” he told his biographer Ernest Jones. After a short interval, most of the new things would be moved into the glass-fronted cabinets positioned around his study, where they were placed in more organised groups than those standing on his desk. Greek sculptures went on a shelf together. A cluster of representations of the Egyptian god Horus were grouped on another.  In Freud’s lifetime, the collection was continually changing. Before his move to London, he toured Vienna’s antiquities dealers almost every week on the look-out for new finds. He was ready to exchange pieces for items he could not afford to buy, and was generous in gifting pieces to friends and pupils he thought would appreciate them. Freud also had no qualms about buying items that came on the market in questionable circumstances, in particular, from the unofficial excavations (sometime after 1906) at a Roman fort in Hungary.   Despite the important part it played in his life, Freud wrote very little about collecting. The nearest that he came to spelling out what drove his interest in fragments of ancient sculpture, was when he compared his own exploration of the unconscious minds of his patients to an archaeological excavation of an ancient city. “The psychoanalyst, like the archaeologist, must uncover layer after layer of the patient’s psyche before coming to the deepest, most valuable treasures.”  Freud was known to share his dining table with choice specimens to act as companions during a meal. “I must always have an object to love”, he confessed to his colleague and rival Carl Jung. When he was writing his book The Interpretation of Dreams in 1895, Freud spent the summer at Schloss Bellevue outside Vienna. He took a selection of what he called “my old grubby gods who take part in the works as paperweights for the manuscripts” with him.  Before Freud left Austria for England in 1938, his desk, his consulting room, and his study at Berggasse 19 were photographed by Edmund Engelman. Engelman’s 150 images helped Freud’s architect son Ernst to transpose the desk and its contents from a dark back room in a Viennese apartment to a sunlit Hampstead villa.  Like most collectors, Freud could never limit himself to a single field. Ronald Lauder the former MoMA chairman, for example, is known for the collection of Viennese modernism that forms the basis for his own museum, the Neue Galerie in New York. He also collects (in depth) in 15 other fields with little apparent connection between them. Lauder is fascinated by the work of the Japanese designer Shiro Kuramata. He has a collection of arms and armour going back to The Crusades, and another of World War Two memorabilia. He owns some of Egon Schiele’s finest works, as well as various 18th-century French artworks. Fellow collector Rolf Fehlbaum (head of Vitra) has one of the largest collections of modern chairs in the world, and gave Frank Gehry his first European commission to design a gallery for it, but he is equally fascinated by toy robots manufactured in Japan since 1937. He calls them tiny kinetic sculptures. Where possible, he acquires their original packaging too. Perhaps the best way to understand the psychology of collecting is to see it as a spectrum. At one end, it is about order and control. In a messy and uncontrollable universe, a collection offers at least a semblance of certainty. A collection of this kind is based on provenance, completeness and authenticity. An over-restored vintage Bugatti is less desirable to a collector than one in original condition.  Every previous owner, every detail of its making forms part of its record. A red Olivetti typewriter designed by Ettore Sottsass that once belonged to David Bowie was sold at Sotheby’s for US$65,000. You can buy one (that hasn’t been owned by Bowie) for US$750, which is still a lot of money for a piece of obsolete technology. Some collectors attempt to make patterns from the things that they acquire or, like jigsaw puzzlers, set out to complete a picture by locating every piece of a set. Some try to document the evolution of a species whether the subject of their interest is biscuit tins or the eggs of a particular type of bird. Some forms of collecting require the active engagement of the collector. Wildflowers need to be picked and dried quickly before they are pressed into a book. Butterfly collectors used macabre methods such as poison jars, or squeezing the thorax, to dispatch their prey without causing so much distress that they risk damaging delicate wings. At the other end of the spectrum, the accumulation of stuff by people who die alone in homes overwhelmed by stacks of ancient newspapers and tins of cat food, is a kind of sickness. It’s a condition that can overwhelm even the most celebrated of artists. In the last 17 years of his life, Andy Warhol filled a succession of cardboard boxes with a seemingly random accumulation of objects: taxi receipts, a vinyl Ramones single signed by Joey Ramone, a piece of an ancient, mummified foot, pastel-coloured corsets and a selection of metal dentures. Every time he had a full box, it was sealed and shipped off to storage in a warehouse in New Jersey. A typical box has 400 objects in it, some have as many as 1,200. Items in them include a piece of Caroline Kennedy’s wedding cake – Warhol seems to have been a regular guest at Kennedy weddings. He showed up 20 minutes after the wedding ceremony for Maria Shriver and Arnold Schwarzenegger had started, in the company of Grace Jones. He was in black leather, and wearing two wigs; she had on a huge green fur hat.   Warhol’s boxes are a collection of the uncollectable and the uncontrollable, which, thanks to the resources of the Andy Warhol Foundation, has been tamed after six years of work by a dedicated group of archivists and cataloguers. The Andy Warhol Museum in Pittsburgh has aestheticised the cardboard boxes. They sit on back-lit shelves in the museum to suggest that this is not a random collection of trash that Warhol never looked at, but, in the view of the museum, is in fact a time-based art piece, comprising at least 500,000 objects that took 30 years to complete. It presents a considerably less impressive sight than British Regency period architect Sir John Soane’s museum. The architect of the Bank of England put as much effort into adapting his Lincoln’s Inn Fields house (and subsequently the two adjoining houses) to display his Hogarth paintings, a sarcophagus and his architectural models, as he did to accumulating the collection itself. The Nobel prize-winning Turkish writer Orhan Pamuk’s novel, The Museum of Innocence is an eloquent exploration of the hoarding end of the collecting spectrum. What initially appears to be an account of a doomed love affair, quickly reveals itself as an exploration of the meaning of collecting. The story’s main protagonist Kemal starts acquiring things when his relationship with his lover Füsun is going well. When she drops an earring, he finds it and puts it to one side. As Füsun falls out of love with him, Kemal begins an increasingly desperate accumulation of objects that record their relationship. He picks up each of the cigarettes that she smokes. When she has stopped seeing him altogether, Kemal starts hanging around at her parents’ house and stealing pieces of cutlery that she might have used.  What makes Pamuk’s book particularly remarkable is that he acquired a house in Istanbul’s Beyoğlu district that had belonged to a Greek merchant in the Ottoman era, and transformed it into a physical Museum of Innocence. It is, of course, very far from innocent; everything inside it is a lovingly created fiction. The first thing that you see once you get inside, is a wall covered with 4,213 cigarette ends, each of them carefully annotated in Pamuk’s neat handwriting, with imaginary details of the time and place they were smoked. The rest of the house is full of equally carefully fabricated objects from cosmetics to movie posters that reflect Pamuk’s vision of the modernising Turkey of the 1970s. “I think getting attached to objects happens in traumatic times and love is a trauma,” Pamuk once said. “Perhaps when they are in trouble, people hoard things.”  When Pamuk gave me a tour of his museum, he told me about meeting Warhol’s archivist, and expressed his reservations about the significance of the boxes in Pittsburgh. “Hoarding objects reaches the level of collecting only when there is a story that unites them,” he said. But that is a novelist criticising another, less narrative art form. While Freud’s desk in Hampstead was always useable, if overcrowded, the desk in fashion designer Paul Smith’s office in Covent Garden is completely overwhelmed with a snowdrift of collected objects that sweeps over an office chair, down onto the floor, and back up to the shelves that line every wall. There are stacks of books and magazines, cameras and mountains of vintage cycling jerseys. There is an i-Mac computer, a gift from Jony Ive that Smith has never used. Computers aren’t Smith’s thing. In any case, it’s too late now, short of purging half the contents of the room: there is no way to get near it. There are toy tin cars, collections of bottles from Moroccan markets, a pink bicycle and a lot of rabbits. “I once said in an interview that seeing a rabbit brings me luck, and they haven’t stopped pouring in ever since,” explains Smith. Collecting began, as did so many things in Smith’s career, with his early enthusiasm for cycling. Growing up in Nottingham in the 1950s, there was a newsagent which occasionally had a copy of L’Equipe, which would portray the heroes of the Tour de France in their yellow jerseys in colour on the cover, but in sepia inside. He bought the magazine, fascinated by the images, even if he couldn’t read it. “I can remember once saying, ‘I really like Jacques Anquetil’ to my father, which baffled him, since none of our family had ever been abroad. I saved my pocket money so that I could upgrade the gears on my bike from Simplex to Campagnolo. The box it came in was as important to me as the gear itself.”  What attracted Smith to the Campagnolo box, along with stamps and matchboxes which he has in large numbers – not just in his office but at his Nottingham HQ where he has an archivist trying to make sense of it all – is the way that designers can say so much in such a tiny space. He showed me a Japanese book of matches produced for a Tokyo nightclub in the 1970s. “It so clearly says it’s ‘contemporary’. You can hear the jazz already.”  Despite the huge assortment of assembled objects, Smith is reluctant to describe himself as a collector. “I just have a large quantity of the same things,” he says, matter of factly. “In my head, a collector is someone who selects an item or a subject. They collect them because they know a lot about them. Maybe I have a little knowledge about cycling jerseys.  In the early 1980s, on my first trips to Japan and India, I just got a bit carried away. I bought lots of Japanese furniture. In India, for some reason, I bought 15 wardrobes, and a piece of furniture that doubled as a staircase with drawers.” Smith had them all sent home on the Trans-Siberian Express.  He suggests that his is a collection that has found him. “Things collect me,” he says. “For some reason I started to be sent things, and they still keep coming.” There is an individual who regularly sends Smith artefacts that come unwrapped but covered in postage stamps. Others send him letters, toys, books and even ancient packets of razor blades. One visitor took careful photographs of his office, and later sent him a precisely detailed model of his office, complete with its chaotic contents. Smith’s London home, where he lives with his wife Pauline, is much calmer. “The house is hers. I do have one room for my stuff, but it’s mostly at the office that I get to look at things.” In 1996, patron of the arts and barrister Jill Ritblat gave the V&A Museum the largest single donation of clothes in its history, more than 1,000 items. There are ski outfits in postmodern pastel shades from the 1980s, and challenging Japanese experiments from Yohji Yamamoto and Issey Miyake, as well as couture from Dior and Saint Laurent. There is work by Alexander McQueen, Biba, Mary Quant, and Christian Lacroix, Emanuel Ungaro and Victor Edelstein, and an evening outfit produced by a dressmaker based on an idea of Ritblat’s own design.  The early days of British fashion from the 1960s are represented by Foale and Tuffin, and Zandra Rhodes, and from the 1980s by Margaret Howell and Katharine Hamnett. There is tailoring from Tommy Nutter and work by Giorgio Armani. It is by no means a complete account of contemporary fashion, but it is certainly extensive, and like the personal wardrobe that it is, combines some very special pieces made for family occasions, with more everyday wear. The connecting thread of Ritblat’s collection is Ritblat herself. These were all pieces that she had bought to wear. They were not chosen like stamps, or old masters, or celadon vases to make a self-conscious collection, but were the result of a continuing sequence of choices over time. Taken together they are a reflection of her life as an English woman of a certain background, at a particular time in the country’s history. “I never saw it as a collection, it was more like my diary, though I have never had time to write a diary. Each piece brings back memories of when I wore it,” says Ritblat. She made her first donation to the V&A at the end of 1996, but kept back the things that she wanted to be able to go on using, and they formed the core of a donation to the Design Museum of another 400 items in 2013. Ritblat is ambivalent about fashion. As a child she was somewhat self-conscious about being dressed by her mother, who had studied fashion herself. She was relieved to be able to assume the camouflage of the complex uniform rituals of an English public school for girls in the 1950s. “I loved my school uniform at Roedean; we were expected to change our clothes four times a day, as chic as anything. Scratchy afternoon dresses, regulation school loafers, very nice blazers and pleated skirts.” As a student barrister, she found herself adopting the formal uniform of the legal profession, but then as a married woman began to build a wardrobe that reflected the life that she was leading. Later, when she was making her own choices, she was early to discover Miuccia Prada. “What you pick out is based on whether it suits you and on the zeitgeist,” she explains. Smith, Heseltine and Ritblat represent three very different approaches to collecting. For Smith, the unruly mountain of things in his office, is, like the collection on Sigmund Freud’s desk, part of the tools of his imagination, a source of imagery and ideas for his work as a designer. It’s also a means of establishing his personality. Heseltine’s garden is an investment of time, resources and creativity in the remaking of a place that speaks to the future using living organisms that will outlive us all. Ritblat’s clothes are a record of the full life of an individual. All of these collections provide insights into unique people, their lives and times. In their different ways all three reflect on the nature of collecting, and its ability to be a creative activity in itself. In a world in which technology threatens to abolish the material world altogether, objects have not lost their allure. Their physical condition marks the passing of time in ways that pixels and code cannot do. Collecting is the means all of us have to create histories of our times, and even more, of ourselves. This article was originally published in FONDATA, Issue Two. 

In order to explore the mindset of the collector, Deyan Sudjic shines a light on the collected objects of Sigmund Freud and Andy Warhol, and speaks to three British collectors to better understand what it is that makes collecting such a vital part of the human experience.

Exploring the mindset of the collector and why the act is a vital part of the human experience, with a focus on Sigmund Freud and Andy Warhol

FONDATA: Exploring the art of collecting 

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