Alcuni dei primi ricordi di Nicolas Champagneux riguardano la vita tra le vigne – il trambusto della vendemmia con i suoi nonni. Non è la fatica che ricorda, ma “des bons moments de famille”, mi racconta – lo spirito conviviale che pervadeva l’aria. È cresciuto nel cuore della Côte-Rôtie, trascorrendo fine settimana e vacanze nel vigneto di famiglia – un’ampia porzione di Les Grandes Places, un sito rinomato nel comune di Verenay, dove il suo bisnonno piantò le viti all’inizio del XX secolo. 
 Les Grandes Places è un sito straordinario – il produttore più famoso è probabilmente Jean-Michel Gérin. Nella parte nord della Côte Brune, in un anfiteatro esposto a sud-ovest, questo pendio scosceso ha suoli friabili di mica scistosa che permettono alle radici delle viti di penetrare profondamente nella roccia madre. È casa di alcune viti molto vecchie – come quelle centenarie coltivate da Champagneux – e produce vini di grande eleganza ma con una potenza scura e carnosa. Champagneux possiede quasi due ettari qui, detenendo le maggiori superfici. 
 Lo zio di Nicolas, André, prese in gestione il vigneto dopo i nonni, mentre suo padre Gérard andò a lavorare in fabbrica. All’epoca non c’erano abbastanza risorse per permettere a entrambi i fratelli di unirsi all’attività di famiglia, e la Côte-Rôtie non era così ricercata come oggi. A parte un paio di barrique per consumo personale, la famiglia non vinificava, coltivando il sito e vendendo quasi tutta l’uva a Guigal, uno dei nomi più famosi del Rodano settentrionale. 
 Infatti, oltre al vigneto di famiglia, Nicolas trascorse molto tempo da Guigal – dopo che suo padre Gérard lasciò la fabbrica per dirigere il loro team di viticoltura. Dai 16 anni, Nicolas lavorava lì durante le vacanze per guadagnare un po’ di soldi. Quando compì 18 anni, dovette trovarsi un lavoro: era deciso a non lavorare in ufficio e amava stare all’aria aperta, così finì per diventare elettricista ad alta tensione – lavorando con correnti di 20.000 volt. “Non eri mai nello stesso posto, ogni giorno era diverso, ogni compito era diverso – quindi non c’era monotonia”, racconta. Spesso finiva presto la giornata e – contadino nato e cresciuto, poco incline al concetto di riposo – andava ad aiutare nel vigneto di famiglia. Quando suo zio morì, non c’era nessun altro che potesse prendere in mano il domaine – così decise di farlo lui, determinato a preservare l’eredità familiare. Scelse di tenere l’uva e iniziare a produrre vino con il nome di famiglia, desideroso di vedere gli sforzi dell’anno racchiusi in bottiglia. Sapeva come lavorare le vigne ma non aveva mai sognato di diventare vignaiolo – tuttavia, senza lasciarsi scoraggiare dalla sfida, imparò sul campo. Era il 2014, e i suoi vini si sono rapidamente guadagnati una reputazione nella regione. La cantina di famiglia aveva l’essenziale, ma le prime annate furono realizzate con il minimo indispensabile – con una nuova cantina costruita nel 2016 (Yves Cuilleron ha fornito consulenza al progetto). 
 Quasi un decennio dopo aver lasciato il mondo di tralicci, trasformatori e conduttori, la vita può seguire un ciclo annuale, ma resta tutt’altro che monotona. Nicolas lavora da solo e apprezza l’indipendenza che ciò comporta – gestendo il proprio tempo ed essendo il proprio capo. “C’è ancora molto da fare e ogni anno è diverso”, mi dice. Sperando che un giorno suo figlio si unisca a lui – nato nel 2009, suo zio mise da parte una riserva di vino di quell’annata, parte della quale verrà rilasciata per il suo 20º compleanno nel 2029. 
 Il cambiamento climatico è in cima ai suoi pensieri, con vendemmie ora a inizio settembre e persino agosto, rispetto a ottobre ai tempi dello zio. Se prima faticavano a raggiungere il 13% di alcol potenziale, oggi i suoi vini si attestano spesso al 14-14,5%. Ora lavora con inerbimento, defoglia meno e utilizza una piccola parte di grappolo intero negli anni più caldi per preservare la freschezza dei vini. Per il resto, poco è cambiato nel decennio da quando ha iniziato – continua a lavorare nel modo più semplice possibile, cercando di tradurre in vino le vigne tra cui è cresciuto. Ed è esattamente ciò che fa: i vini sono eleganti espressioni di Les Grandes Places, profumati e setosi, con un fine grip tannico e una salinità sapida sottostante, invecchiando magnificamente – come ha mostrato una mini verticale delle annate 2015, 2016 e 2017. I vini di Nicolas Champagneux 
 Dalle sue quattro ettari di vigne, Nicolas Champagneux produce tre vini: un IGP Vin de Pays des Collines Rhodaniennes La Rémise e due Côte-Rôtie, Les Grandes Places e La Dédicace, tutti realizzati al 100% con Syrah. 
 La Dédicace proviene dalle viti più giovani di Les Grandes Places, con una “modesta” età media di 40-60 anni. Circa 6.000-7.000 bottiglie vengono prodotte di questo “baby” Grandes Places. 
 Les Grandes Places proviene invece dalle viti più antiche, con una media di poco superiore ai 100 anni, alcune piantate nel 1910. Solo circa 1.500 bottiglie vengono prodotte di questo vino ogni annata. 
 Entrambi i Côte-Rôtie sono vinificati esattamente nello stesso modo, per lo più diraspati con una piccola parte di grappolo intero aggiunta nelle annate più calde e fermentati con lieviti indigeni, raggiungendo un massimo di 28-30°C e restando sulle bucce per circa tre settimane. Il vino trascorre poi 20-24 mesi in vecchie botti prima dell’imbottigliamento. Nicolas Champagneux Côte-Rôtie Les Grandes Places: una degustazione verticale 
 2022 Côte-Rôtie Les Grandes Places: Pieno di intensità speziata – chiodi di garofano e cardamomo insieme a un tocco di pepe di Szechuan. Il palato offre una succosità lussureggiante, stratificata con frutta scura concentrata di ciliegia e un accenno di tapenade nera, con tannini avvolgenti e il tutto rinfrescato da una linea di vivace acidità. Un neonato ora, da avvicinare dal 2030. 
 2021 Côte-Rôtie Les Grandes Places: Un 2021 davvero notevole, equilibrato e potente, il Les Grandes Places di Champagneux ha bisogno di aria ma rivela gradualmente spezie di pepe e delicati fiori di violetta. C’è però potenza e corpo al palato – più di quanto ci si aspetterebbe dal naso elegante, con una fermezza sapida, tannini flessibili ma strutturati e acidità succosa. È scuro e meditativo, gotico nei suoi toni floreali struggenti, con un lungo finale salino e appetitoso. Da approcciare dal 2027. 
 2017 Côte-Rôtie Les Grandes Places: Il 2017 Les Grandes Places combina delicati aromi floreali con una nota ferrosa e sanguigna al naso, che introduce un palato stratificato di frutti di rovo. I tannini sono rotondi, morbidi e setosi, con un’acidità vivace che attraversa la frutta concentrata, mentre il lungo finale è profumato di pepe bianco e violette. 
 2016 Côte-Rôtie Les Grandes Places: Questo 2016 è in uno stato splendido. Incenso intenso si fonde con frutta dolce di ciliegia e un tocco di fumo al naso, conducendo a un palato in cui ci si immerge – il vino è morbido e flessuoso, con onde di frutta dolce, ma il tutto tagliato da un bordo salino e sapido. Fresco e perfettamente equilibrato, da decantare e godere ora e per il prossimo decennio. 
 2015 Côte-Rôtie Les Grandes Places: Il più austero della trilogia 2015, 2016 e 2017, questa è un’annata potente e impressionante di Les Grandes Places – con tutte le migliori caratteristiche dell’anno. Il vino è scuro e profondo, compatto e ancora sorprendentemente primario, con profumi di ciliegia nera e mora. Al palato mostra però una purezza e un’intensità straordinarie, con una qualità cristallina della frutta, abbondante acidità a bilanciare la concentrazione e tannini fermi. Note affumicate e saline persistono in bocca, con un accenno di petali floreali nel finale. Da decantare se aperto ora, ma sarà ancora migliore se saprete aspettare qualche anno. 
 Esplora tutte le attuali etichette di Nicolas Champagneux, incluse varie annate precedenti, o leggi di più sul Rodano.

Sono passati quasi dieci anni da quando Nicolas Champagneux ha preso in mano le vigne di famiglia e ha iniziato a produrre vino con il suo nome, diventando la prima generazione a farlo. Abbiamo incontrato il vignaiolo per scoprire di più sulla sua storia e sul percorso intrapreso finora.

How the talented young vigneron in Cote-Rotie has taken his family’s legacy and created a new domaine that is one of the Rhone’s most exciting 

Nicolas Champagneux – building on his birthright 

Nicolas Champagneux: costruire sul suo diritto di nascita

Non capita tutti i giorni di poter assaggiare vini prodotti oltre mezzo secolo fa – ma all’inizio di questo mese ho potuto ripercorrere l’Imperial Gran Reserva di punta di CVNE fino all’annata 1947. Victor Urrutia, quinta generazione della sua famiglia alla guida di questo leggendario produttore della Rioja, ha organizzato una degustazione di quella che ha definito “la sporca dozzina” – affiancando 12 annate di Imperial. I vini sono stati scelti per mostrare come il vino si esprima attraverso una gamma di annate – non solo le più celebri, ma le calde, le fredde, le possenti e le mediocri. 
 CVNE produce vino nella Rioja Alta dal 1879, quindi – anche risalendo al 1947 – questa degustazione ha offerto solo un’istantanea della sua storia. Imperial fu creato agli inizi del XX secolo (1917 è l’annata più antica assaggiata dallo stesso Urrutia), concepito come una “super Rioja”, ha spiegato Urrutia. L’idea era di fare il miglior vino possibile, a prescindere dal suo potenziale commerciale, in un’epoca in cui la Rioja non aveva il prestigio di oggi. Si producono circa 50.000 bottiglie, ma – cosa importante – Imperial non viene realizzato in ogni annata, poiché in alcuni anni la qualità dell’uva non soddisfa i rigorosi standard di CVNE (ad esempio non ci sono state le annate 2003, 2006 o 2013, e non ci sarà nemmeno la 2023). 
 Per Urrutia, l’obiettivo con Imperial oggi è riflettere ciascuna annata e mettere a punto il vino piuttosto che cercare rivoluzioni. Le annate più antiche sono il loro punto di riferimento e fonte d’ispirazione. Attraverso le annate, tuttavia, Urrutia indica un naso “da chiesa” – qualcosa che trova distintamente Imperial e che ricorda la cantina. 
 È facile, forse, dimenticare quanto bene invecchi la Rioja – e non solo per un decennio o due, ma per oltre mezzo secolo. L’annata più vecchia di questa degustazione, la 1947, è stata senza dubbio la stella – un vino che ha conservato la sua freschezza, con aromi delicati e un palato magnificamente lungo, puro, risolto. L’intero volo ha impressionato – con la qualità di Imperial a risplendere. Sono comparse alcune delle annate leggendarie della Rioja (la 1970 e la 1959, che siedono accanto a 1982 e 1964 nei libri di storia), ma i miei preferiti personali sono stati la già citata 1947, la 2004 ancora compatta (nominata Wine of the Year da Wine Spectator nel 2013), la cupa 2011 e la graziosa, elegante 2018. I vigneti di Imperial L’uva per l’Imperial Gran Reserva proviene dai migliori vigneti di CVNE, tutti con oltre 40 anni di età e quasi tutti ad alberello, con rese di circa 4.000 kg/ha (equivalenti a circa 25 hl/ha o meno di 1,5 tonnellate/acro). Le parcelle si trovano tutte vicino ai monti Cantabrici, a circa 500–600 metri di altitudine, e su suoli poveri ma freschi (argilla e calcare) – conferendo grande freschezza ai vini, anche negli anni caldi e siccitosi, spiega la storica Direttrice Tecnica María Larrea. 
 Il villaggio di Villalba de Rioja è stato la spina dorsale del vino sin dalla sua concezione. Questo villaggio è il luogo in cui i fratelli Real de Asúa (che fondarono CVNE) acquistarono per primi dei vigneti, quattro chilometri da Haro. I vigneti sono ripidi ed esposti a sud, soggetti ai venti e quindi alcune viti devono essere allevate a cordone speronato (cordón Royat), ma ciò apporta acidità e freschezza al vino – elementi essenziali per il suo potenziale di invecchiamento. Parcelle nei villaggi di Briones e Torremontalbo furono aggiunte in seguito, negli anni ’60. Briones ha suoli più ricchi, pendii dolci e un clima più caldo, conferendo struttura e corpo al vino, mentre Torremontalbo ha pendii ripidi e sassosi con suoli calcarei e una significativa escursione termica, aggiungendo mineralità e finezza al blend. 
 Il blend di Imperial Il blend è cambiato nel corso degli anni, con il vino originariamente attorno al 40% Garnacha e 40% Tempranillo, con il restante 20% Graciano e Mazuelo. I vecchi vigneti erano field blend, con le varietà interfilari e raccolte insieme, implicando livelli di maturazione misti – qualcosa che probabilmente apportava equilibrio e complessità ai vini, anche se parte dell’uva poteva non essere matura. Oggi, ogni varietà è piantata separatamente da CVNE – permettendo maggiore controllo e precisione, vendemmiando ciascuna uva al momento perfetto e componendo il blend in cantina. 
 Negli anni ’70 si è assistito a un allontanamento dalla Garnacha, con sempre più Tempranillo piantato al suo posto. La Garnacha era meno apprezzata, vista come un cavallo da tiro, impressione soltanto rafforzata quando cloni meno pregiati e ad alta resa furono piantati negli anni ’80 e ’90. Come ha anche osservato la Larrea, la Garnacha è molto più soggetta a colatura e acinellatura (scarsa fioritura e allegagione), il che potrebbe essere stato un altro fattore del suo declino. C’è stato anche un periodo, ha spiegato Urrutia, in cui Bordeaux era il punto di riferimento per il vino fine, e si cercava di imitare la regione, privilegiando il Tempranillo per il suo colore più scuro rispetto alla più sottile di buccia e quindi più pallida Grenache. Oggi, il blend è dominato dal Tempranillo (con sia il 2017 sia il 2018 Imperial all’85% Tempranillo), ma la Grenache sta vivendo una rinascita in tutta la Rioja e – a patto di avere il giusto materiale clonale e/o vigneti più vecchi – potrebbe contribuire maggiormente al blend in futuro. 
 La proporzione di Graciano e Mazuelo è stata leggermente ridotta, ma la Larrea sottolinea quanto siano importanti le due uve di fronte al cambiamento climatico. Il Mazuelo (alias Carignan/Cariñena) fornisce struttura e colore, mentre il Graciano apporta acidità e complessità aromatica. La vinificazione Sebbene sia entrata in CVNE nel 1991, María Larrea ha preso in mano la vinificazione di Imperial con l’annata 2005, succedendo a Basilio Izquierdo, che aveva diretto le operazioni per oltre 30 anni (dal 1973). Prima di Izquierdo venne Ezequiel García, noto come “El Brujo” (“Il Mago”), enologo di CVNE per oltre tre decenni (tornò brevemente nel 2014 per ricreare il loro leggendario bianco, Monopole). 
 Attraverso i tre enologi e quasi 70 anni, sorprendentemente è cambiato poco. La vinificazione qui rimane estremamente tradizionale, sebbene la tecnologia abbia permesso al team di monitorare i vini più da vicino e di migliorare l’igiene di cantina, come nella maggior parte delle regioni. La fermentazione rimane indigena, anche se non è più spontanea – i vini vengono inoculati con un ceppo selezionato del loro lievito indigeno dall’inizio degli anni 2010 (con alcuni esperimenti negli anni ’90). Tradizionalmente la fermentazione avveniva in vasche di cemento, ma negli anni ’90 si è passati al rovere, con una sola annata (1994) fermentata in acciaio inox quando le botti non arrivarono in tempo. 
 I vini venivano un tempo conservati in botte e imbottigliati solo al momento della vendita, quindi alcune vecchie annate di Imperial hanno trascorso oltre un decennio in botte, mentre oggi il vino resta normalmente in botte tra due e tre anni. (Le date di imbottigliamento per ciascuna annata sono incluse di seguito – la 1947 non fu imbottigliata fino al 1960!) In origine il rovere era tutto americano, semplicemente perché era quello a cui avevano accesso tramite le loro storiche rotte commerciali, e le botti venivano mantenute per decenni (la Larrea ricorda l’uso di botti di 40 anni quando arrivò negli anni ’90). CVNE ha iniziato gradualmente a introdurre rovere francese negli anni ’80, con circa il 30% di rovere francese negli anni ’90 e circa il 60–70% oggi, con il resto americano. I vini: degustare otto decenni di CVNE Imperial Una nota sulle bottiglie: le annate più vecchie sono in vetro verde, ma si è passati al vetro ambrato circa 10–15 anni fa. 
 2018 Imperial Gran Reserva: Questo è stato un vero highlight della verticale. È ancora molto giovane, fruttato, ma con straordinaria finezza e delicatezza. Il naso è preciso con aggraziati aromi di spezie, grafite e fiori insieme al frutto cristallino. Il palato è succoso e agile, puro, setoso e fresco con tabacco saporito e frutti rossi disidratati che riempiono il finale saporito. Bellissimo e molto aperto, già ora. Fermentato in rovere, 14% alcol e imbottigliato a luglio 2021. 
 2017 Imperial Gran Reserva: Gelate hanno colpito gran parte dell’Europa a fine aprile 2017, sebbene il resto della stagione sia stato relativamente caldo, producendo un raccolto minuscolo di frutta concentrata. È un vino drasticamente diverso dal 2018, ma ancora con grande freschezza e un guizzo floreale accanto a frutta rossa matura e dolce. Il palato è teso, molto meno approcciabile del 2018, con tannini compatti, un morso di acidità croccante e una stretta di tannini fermi, mentre toni affumicati riempiono il finale. Decantare per goderselo ora, ma sarà ancora migliore con un paio d’anni in bottiglia. Fermentato in rovere, 14% alcol e imbottigliato a luglio 2020. 
 2015 Imperial Gran Reserva: Il 2015 Imperial è scuro e intenso, stratificato con ricchi frutti di rovo, cedro, tabacco, spezie e qualcosa di carnoso – forse un accenno di biltong. Il palato riecheggia la concentrazione del naso, con tannini masticabili e una linea di acidità che incide la sua intensità. Potente, quasi severo, con più frutta secca che emerge con l’aria, il finale è lungo e saporito, con un tocco di miso rosso. Fermentato in rovere, 14,5% alcol e imbottigliato a giugno 2018. 
 2011 Imperial Gran Reserva: Un altro spicco della verticale, il 2011 Imperial offre un naso scuro e puro, ancora sorprendentemente primario con frutta di ciliegia nera e cassis, sollevato da un dolce profumo speziato. Il palato è setoso e puro, ancora così giovane, scorre sulla lingua, incorniciato da tannini fermi ma integrati. È concentrato e lungo, con aromi floreali che danzano sul finale succoso. Difficile resistergli, con grande equilibrio. Fermentato in rovere, 13,5% alcol e imbottigliato a luglio 2014. 
 2009 Imperial Gran Reserva: Questo è un Imperial molto serio, ora in una fase di bella maturità – con sottobosco saporito e note speziate accanto al vibrante frutto di bacche scure. Il palato è intenso ma con una morbidezza, nonostante l’impalcatura tannica masticabile. È succoso ed espressivo, con note affumicate, speziate, di tabacco sul finale, e appena un leggerissimo accenno di cuoio che inizia ad apparire. Fermentato in rovere, 13,8% alcol e imbottigliato a gennaio 2013. 
 2004 Imperial Gran Reserva: Da una “annata da manuale”, nelle parole del CEO di CVNE Victor Urrutia, il 2004 brilla. Trucioli di matita e bacon completano frutta matura e scura. Il palato è teso e compatto, ma con una succosità che allunga l’insieme, con un’acidità che guida fino al lungo finale. I tannini sono soffici e morbidi, integrati con il frutto, ma offrono ancora presa sul finale. Luminoso ed equilibrato senza sforzo. Fermentato in rovere, 13,8% alcol e imbottigliato a ottobre 2008. 
 1994 Imperial Gran Reserva: Questa è un’annata intrigante di Imperial, l’unica ad essere stata fermentata in acciaio inox durante il passaggio dal cemento al legno, ma le botti nuove non arrivarono in tempo per l’annata. Fu anche servita al matrimonio del Principe della Corona di Spagna, poi divenuto Re Felipe VI. Dopo il 2004, questo segna uno spostamento verso vini dominati da note terziarie, sebbene qui ci sia ancora molta frutta. Il naso è speziato con fungo e sottobosco accanto a incenso e toni di cuoio. Il palato è carico di umami – con cuoio fresco e frutti di bosco disidratati – oltre a fragole essiccate, tannini morbidi e acidità rinfrescante. Fermentato in acciaio inox, 13,16% alcol e imbottigliato a giugno 1998. 
 1980 Imperial Gran Reserva: Come ha detto il CEO Victor Urrutia, il 1980 è stata “un’annata di merda” – ed è sempre rimasta all’ombra del 1981 e del 1982. Assaggiando il vino oggi, probabilmente è giusto – tuttavia resta un vino impressionante. Il naso ha un accento nettamente erbaceo, mentolato, sulla dolcezza del frutto – fragole macerate, con un accenno balsamico. I tannini offrono ancora mordente, mentre il frutto vira verso toni più scuri e di rovo verso il finale. Fermentato in cemento, 13,4% alcol e imbottigliato a maggio 1985. 
 1970 Imperial Gran Reserva: L’annata 1970 fu calda e produsse vini potenti – guadagnandosi la reputazione di una delle migliori annate della Rioja. Dopo oltre 50 anni, il vino è intensamente saporito – combinando soia, marmite e sentori di stalla con frutto scuro intenso. Con l’aria, il vino offre strati di spezie (quasi reminiscenti della paprika), bacon frazzles e mandorle affumicate, a complemento del concentrato nucleo di frutto. È intenso ma equilibrato, con acidità brillante che mantiene tutto fresco e riempie il lungo finale. Fermentato in cemento, 12,97% alcol e imbottigliato a marzo 1975. 
 1968 Imperial Gran Reserva: Da un’annata più difficile, il 1968 Imperial ha un naso affascinante che combina senza soluzione di continuità il salato e il dolce – con una ricchezza terrosa che siede accanto a frutto di bosco intriso d’incenso e una gradevole nota erbacea. Il palato è elegante e vibrante, con ancora molta frutta che guida attraverso il suo nucleo, mentre note più saporite e affumicate dominano il finale. Fermentato in cemento, 12,7% alcol e imbottigliato ad aprile 1974. 
 1959 Imperial Gran Reserva: L’annata 1959 è un’altra tra le più lodate della Rioja, sebbene sospetto che questa bottiglia non si sia espressa al meglio. C’è una morbidezza e intensità al palato, con una spinta acida affilata, mentre il naso è dominato da cuoio, liquirizia nera e sentori di stalla. Fermentato in cemento, 13% alcol e imbottigliato a febbraio 1968. 
 1947 Imperial Gran Reserva: Un vino straordinario da assaggiare, il 1947 CVNE Imperial ha una reputazione – che questa bottiglia ha più che confermato. Note di caffè e tabacco con frutto brillante – ciliegia rossa matura e lampone, oltre a fiori, incenso, tè nero e salvia, accanto a un profumo affumicato. È lungo e fresco al palato, senza soluzione di continuità e pienamente risolto ma puro e persistente, con un accento di Bovril sul finale che è vibrante e lungo. Splendido ora – bevetelo finché ne avete l’occasione. Fermentato in cemento, 12,4% alcol e imbottigliato ad agosto 1960. 
 Esplora tutte le etichette CVNE, inclusa una gamma di vecchie annate di Imperial Gran Reserva, o leggi altro Editorial

All'inizio di questo mese, CVNE ha ospitato una degustazione irripetibile del suo Imperial Gran Reserva. Sophie Thorpe esplora cosa rende questo vino così speciale e come si è evoluto nel corso di otto decenni.

Exploring CVNE’s flagship Gran Reserva Rioja, Imperial, back to 1947 at a once-in-a-lifetime tasting with CEO Victor Urrutia 

Tasting CVNE’s Imperial Gran Reserva Rioja 2018-1947 

Un'icona attraverso i secoli: Imperial Gran Reserva di CVNE

Ch. Belle-Brise is a rather inconspicuous Bordeaux property with a “garden” vineyard of just two hectares and an annual production of just 800 cases. With such small quantities produced and a legion of loyal followers, the wine is little known outside of an exclusive list of top restaurateurs, a few lucky distributors and their clients. Henri-Bruno is the 20th generation of the de Coincy family, famous for their Armagnac production that dates back an incredible 700 years. Despite this impressive lineage, Henri-Bruno's winemaking skills are a much more recent labour of love. Similarly, Ch. Belle-Brise was late to commercial winemaking – an enterprise started by Henri-Bruno when he bought the property in 1991 – despite producing wine since the 18th century. Ch. Belle-Brise is often compared to the Grand Crus of Burgundy and has been referred to as the "Musigny of Pomerol", such is the elegance and weightless power this wine consistently seems to possess. Theories abound about why this is the case. Perhaps it is Henri-Bruno's  Burgundian wife's influence, or the pre-1956 vines, or small-scale operation? For De Coincy, it is all of the above that makes this little wine of Pomerol so unique. The foundations of Ch. Belle-Brise What is really special about the Belle-Brise vineyard is the age of the vines, more than 100 vines are a staggering 120 years old and the average vine age is around 70 years old.   It is rare to find any Pomerol vines that pre-date 1956, as devastating frosts that year destroyed virtually all the region's vineyards. Many vines planted in Pomerol post-1956 were reliable clones but not as good in terms of wine quality. This is not the case at Belle-Brise, where vines either pre-date 1956 or were propagated from the surviving old vines. Outside of Belle-Brise, there are just a few pre-1956 vines dotted around Pomerol and Saint-Emilion – most noticeably at Ch. Lafleur and Ch. Ausone. Old Cabernet Franc and Merlot vines, De Coincy believes, create an overall elegance, finesse and depth of flavour on the palate that is something really special. The Belle-Brise vineyard contains a split of around 80% Merlot and 20% Cabernet Franc. The soil has gravel on the surface and beneath, a layer of clay, chalk and crasse de fer (iron rich bands of sand that play an important role in the flavour characteristics of many top Pomerol wines). Many believe this is responsible for the truffle aromas commonly found in Pomerol wines. Others believe it provides viticultural benefits, limiting vigour and excessive leaf growth, in turn producing smaller concentrated berries. Natural winemaking at Ch. Belle-Brise Despite being an experienced Brandy producer, De Coincy's project in Pomerol required considerable learning on the job and was faced with a challenging start. His first crop in the 1991 vintage was largely decimated by frost, meaning he had very small quantities to work with and likely not enough to sell. This did, however, mean he was able to experiment with the vintage and trial different approaches. Three very challenging Bordeaux vintages followed as Mother Nature threw everything at De Coincy. It was a steep learning curve. When the more successful 1995 and 1996 vintages arrived, the winemaker was ready to produce Belle-Brise in his style, with confidence. The approach is artisan and natural. There is no electricity on site and everything is made much as it would have been centuries prior. The grapes are grown using biodynamic and organic principles, and De Coincy employs horses to work the vines. The grapes are all harvested within one day allowing pin-point accuracy on picking dates. They are then hand-sorted exclusively by women – something de Coincy is insistent upon. Once picked and sorted, the grapes are then left uncrushed in concrete vats in the winery. De Coincy then closes up the cellar and leaves the grapes for five days, so the natural coolness of the cellar retards the fermentation process. After five days, De Coincy returns to open up the cellar. As the heat of the day enters the cellar, the grapes naturally begin to ferment from natural yeasts. De Coincy tends to pump over the juice twice a day over six to 10 days depending on the vintage and then leaves the wine to settle in-tank prior to the pressing of the skins. This traditional method is not very common in modern winemaking as it can run the risk of contamination. De Coincy, however, believes this method helps extract the delicate aromatics from the wine. After this stage, De Coincy carries out a very slow pressing of the skins using an old manual vertical process, which he believes is another vital element in the process that retains a delicate finesse typically found in Belle-Brise. Many of these methods are not possible in larger estates as they are laborious and manual. The Belle-Brise wines are then matured in large 400-litre barrels (one-third new, one-third one-year-old, one-third two-year-old), eschewing smaller barriques which De Coincy feels has too strong an affectation on the wine. The Ch. Belle-Brise drinking window Ch. Belle-Brise has always been a fairly accessible wine in its youth with its compact but soft tannins already beautifully integrated. For De Coincy, Belle-Brise needs five years maturation in bottle before you can really benefit from the full impact of the wine and then, depending on your tastes, it drinks beautifully over the next decade. De Coincy has often served his wine blind to his restaurateur clients and found it has been mistaken for premium Burgundy. The similarity with Grand Cru Burgundy is difficult to fathom, considering the completely different varieties and different climates, yet Belle-Brise does boast the silkiness, finesse and almost weightless power of Grand Cru Burgundy, with a touch more opulence you expect from Pomerol. Ch. Belle-Brise's rarity With a mere two-hectare walled -garden vineyard, production at Belle-Brise is minuscule, making it one of the rarest wines on today's marketplace. The vast majority of liquid never reaches private clients as it is snapped up by some of France's finest three-Michelin-starred restaurants. In fact, 80% of three-star-Michelin restaurants in France (and 25 other countries) list the wine, including Georges Blanc and Alain Ducasse: Le Louis XV. Beyond these locations,  private clients can only source Belle-Brise through FINE+RARE and Vinfolio. Browse all currently available Ch. Belle-Brise vintages, exclusively available through FINE+RARE & Vinfolio, or read more Editorial

We caught up with Ch. Belle-Brise's owner and winemaker Henri-Bruno de Coincy to find out the secret behind this idiosyncratic Pomerol estate  

Ch. Belle-Brise's owner and winemaker Henri-Bruno de Coincy on the secret behind this idiosyncratic Pomerol estate  

Ch. Belle-Brise idiosyncratic Pomerol wines

Ch. Belle-Brise: talking to Henri-Bruno de Coincy

Pochi nomi in Abruzzo sono diventati ricercati quanto Tiberio, nota soprattutto per i suoi vini monovitigno Fonte Canale, Colle Vota e Archivio. Abbiamo incontrato Cristiana Tiberio per parlare del progetto e per degustare una verticale di questi vini straordinari e innovativi.

Sitting down with Cristiana Tiberio, cult Abruzzo winemaker, and tasting a vertical of Fonte Canale, Colle Vota, Archivio wines

Cristiana Tiberio – advancing Abruzzo

L'Abruzzo avanza: Tiberio

Since Bruno-Eugène Borie took over Ch. Ducru-Beaucaillou in 2003, the estate has become one of the best-known and most-loved properties in Bordeaux. The 2023 vintage will be his 20th at the helm – during which time the estate, and the region, have been transformed.  “Everything has changed, and nothing has changed,” Borie says, laughing. “Go all the way back to 1720. Even then, Ducru was trying to improve and adapt to current market conditions.” While he insists that Ducru’s quest to produce the best wine possible dates back centuries, facilitating that motivation has not always been easy. Bordeaux thrived throughout much of the 18th and 19th centuries, prior to the arrival of phylloxera in 1875. The economic turmoil in Europe during the first half of the 20th century was even more challenging, and the recovery slow. It’s only really in the 21st century that many of the top Bordeaux estates have regained the resources and clawed back their premiership. Borie took over Ducru at a key turning point for the region – with both the climate and markets rapidly changing. Economic reform in China led to a huge influx of new customers for the fine wine market, and Bordeaux in particular. “China represents 30-40% of the Bordeaux sales today,” says Borie. “It changed everything.” For Borie, this sudden and huge expansion of the market began to lure investors from all over the world. As investment flooded into the region, new wineries, new equipment, new viticulture and new technology began to pop up everywhere. “More investors meant more managers, and more managers hired innovators,” says Borie. It facilitated a whole qualitative movement that, he believes, is behind so much innovation in the region. But the investment in Bordeaux was not the only factor behind the big changes at Ducru. Borie’s decision to slash production had a huge impact on the estate. Before he took over, the property made around 15,000-20,000 cases of the Grand Vin. Today, it’s closer to 7,500 to 8000. Few estate owners can attest to such a dramatic drop in yield for the sake of quality. Such a bold move was certainly helped by Ducru’s independence – it is one of the few Classed Growths that is still 100% family-owned. And the risk has paid off, with Ducru regularly competing for wine of the vintage in the Médoc. Climate also brought about big changes at the property. Borie’s first year in charge – 2003 – was the hottest on record. Soaring temperatures were causing havoc all over France and not just in the vineyards. “People were dying on the streets of Paris,” recalls Borie. He remembers his viticulturist at the time came to him in June, suggesting they start leaf-thinning the vines (removing leaves, opening up the canopy and bring more sunshine to aid ripening). With the vintage’s blazing sun, Borie thought it was madness. “People did it because it’s what they always did,” says Borie. But he resisted. He quickly realised it would be the weather – rather than tradition – that dictated work in the vineyard going forward. As harvest dates crept forward, the days of an August off at the beach were disappearing. Everything was changing. While the investment and innovation in these early years coincided with rapid change in the region, it is over the last 10 years that Borie has witnessed the most impactful changes in Bordeaux. In the vineyard, these changes have not arisen from flashy new machinery, but in the strategic employment of companion planting and cover crops. These agricultural techniques have been used through the ages, but, Borie believes, never as dynamically and rigorously as today. “We plant a certain type of radish in the vineyard where we find compaction, this opens the soil and creates more oxygen. We plant alfalfa at the beginning of spring where needed, bringing nitrogen to the soil at the right time,” he explains. The control of organic matter, Borie believes, is the key to healthy soils, healthy vines and, most importantly, the quality of the grapes. But, Borie is quick to emphasise, this is not simply a revived practice from the days before chemical farming. For Borie, the science behind which and what cover and companion crops to use is much more advanced. Practices are no longer habitual, but much more scientific. “The companion planting of crops between the rows is very new,” says Borie. “Each plot has different requirements.” It doesn’t always work. Borie recounts how the planting of sorghum to encourage the root development of the vines resulted in a nematode infestation (a pest similar to phylloxera) – and the sorghum was quickly replaced. They’re still learning, admits Borie, but he’s convinced the vineyards have never been in better shape. Over the last 10 years, there have also been technological developments in the winery too. Borie is very proud of his “smart” tanks – which analyse the must and wine throughout fermentation, 24 hours a day. It’s a game changer for Borie who has been experimenting with them since 2019. In recent vintages, the Grand Vin has been made exclusively in these tanks. The information these tanks provide is perfect for monitoring temperatures and maceration levels – allowing Ducru to get the best out of the tannins without over-extracting. With live updates on what’s going on inside the tank (and no need to manually take a reading), they can adapt their processes instantly. Ducru has always been family-owned – giving Borie a sense of responsibility and duty. He still lives at the estate, making it one of the very few inhabited châteaux in the Médoc. Borie resides in one of its famous towers, while his mother (95 years old) lives in the other (and still enjoys two glasses of wine for lunch and one for dinner).  As custodians of the estate, Borie – and his mother – have witnessed many changes. And as Borie has grown accustomed to greater precision in the vineyard and winery, he has returned to consider older vintages in the estate’s cellars. He and his team set about checking every mature bottling, re-corking only those in perfect condition and destroying the rest. These bottles are more than history, they represent his family – and his sense of duty to their reputation has been the driver behind many similarly costly projects over his 20-year tenure. Having the opportunity to taste the entire range from Ch. Ducru-Beaucaillou from the magnificent 2019 vintage (now all in bottle) was a wonderful experience. Across the range, it is the textural quality of the wines that really stands out. The clarity of fruit – which Ducru has become renowned for – is also apparent. The quality of the Grand Vin, however, is so impressive – the depth and concentration, the layering of abundant tannins while never losing its finesse. Even at such a young age, its drinkability is a perfect example of contemporary Bordeaux with that extra level of precision. Tasting the 2005 alongside proved how well the wines at Ducru age. Still youthful with plenty of fruit, the first hints of midlife tertiary development bring so much complexity to the palate. It was only Borie’s third vintage, but the lower yields produced a wine of incredible concentration and balance.  The fortunes of history and the new wealth in Bordeaux has benefitted practically every property in the region but few have been so effective at capitalizing on it than Ducru. The transformation of this Saint-Julien property, both in the vineyard and winery, is impressive but there is, Borie believes, still room for improvement. His latest investment is a state-of-the-art winery planned for completion in 2024. With Borie in the driving seat and committed to championing the Super Second’s – and his family’s – reputation, Ducru-Beaucaillou is in a safe pair of hands. Browse all Ch. Ducru-Beaucaillou listings or read more Editorial

Ch. Ducru-Beaucaillou had been transformed under Bruno-Eugène Borie. On the eve of his 20th vintage at the helm, Gavin Smith sat down to talk to the winemaker and owner about the changes, family – and why there is still more he can do at this Saint-Julien Super Second

On the eve of Bruno Borie’s 20th anniversary in charge of Ducru-Beaucaillou, he identifies his key motivations behind transforming this Bordeaux Super Second

Bruno Borie on 20 years at Ch. Ducru-Beaucaillou

Duty of service: Bruno-Eugène Borie on two decades at Ch. Ducru-Beaucaillou

In a report published in 2014 by the UN’s Food and Agriculture Organisation, under current rates of degradation, all the world’s topsoil could disappear within 60 years. With 95% of all food produced relying on these living soils, this pronouncement was a stark and terrifying warning of what lies ahead. Industrial farming and deforestation are the leading causes behind the degradation of soil. Grape growing and large parts of the wine industry remain very much part of that problem. France’s vineyards, as an example, are the country’s biggest consumers of chemical fungicides, insecticides and herbicides. These products can devastate the life in the soil and completely disrupt the biodiversity of a region. Although viticulture represents just 3% of France’s agricultural land, the sector spreads 20% of the country’s fungicides. Many vignerons have tried to reduce chemical inputs, either using them as a last resort or not at all. Some believe non-chemical additions of copper and sulphur typically used to treat fungal diseases (the biggest threat to yields) are more damaging to the environment than systemic chemical interventions. It is a complex picture. But there are vignerons committed to non-chemical approaches – growers who believe they can offer alternative methods that are both sustainable for the future and remain commercially viable. While there are various approaches, they all share the belief that protecting the health of the soil is fundamental to their vineyard’s long-term future, as well producing a farming system that is not only sustainable but regenerative, in that it sequesters more carbon dioxide in the soil than it takes out. Exactly how this is practised remains a contentious debate. Many of these growers are certified organic, many are not – certification itself is another controversial issue. Biodynamic farming is organic farming with a more holistic approach, trying to recreate a natural balancing ecosystem that allows nature to restore and rejuvenate itself, in rhythm with the lunar cycle. Others have gone even further and have allowed their vineyards to grow wild, believing that an undisturbed vineyard is the most sustainable and ecologically healthy. Organic and biodynamic farming practices are essentially a return to conventional farming methods carried out prior to the introduction of chemical farming 70 years ago. The more non-interventionist approach goes one step further, attempting to recreate an environment that pre-dates all commercial farming. It is an approach in which crops and other plant life coexist together, allowing the environment to dictate what grows where. Under the teachings of Masanobu Fukuoka, it was coined “natural farming”. Masanobu Fukuoka was a Japanese microbiologist and agricultural scientist who studied plant pathology. After nearly dying during a bout of pneumonia, he experienced what he described as a profound spiritual experience – leading him to begin to doubt modern agricultural science. He gave up his scientific post and returned to his family’s farm on the southern Japanese island of Shikoku. It was here that he developed his own non-intervention farming techniques, which involved no tilling or ploughing, and no fertilisation of the land. This was to protect the vital microorganic life in the soil, that he believed was essential to creating an ecologically balanced environment. The publication of his seminal book, The One-Straw Revolution, in 1975, went on to influence the permaculture movement (no till, no ploughing) in the west, and even more radical concepts. Alsace-based viticulturist Bruno Schloegel (of Domaine Lissner) is one such radical. He has a nine-hectare estate that, over the last 20 years, he has adapted to what he calls the “savage” approach to viticulture. For him, “savage” is a more accurate translation of Fukuoka’s methods. “I asked my Japanese friends to translate Fukuoka’s Japanese term,” says Schloegel, “and it translates as something between being free and alive. But not just the vines, the whole system of animals, insects, fungus. The key is not to disturb, as this will weaken the system.” For Schloegel it is a better translation than “natural” which today, he believes, no longer means anything. Despite adopting Fukuoka’s ideas, Schloegel was in fact practising the same approach before he was even aware of the Japanese farmer’s book. “I never knew about Fukuoka until a few years ago. I was given his book and it was amazing. Almost every page, we were totally linked.” Both former scientists, Schloegel too became frustrated by the scientific data available. “It is more complex than the techniques we have been taught,” he says. “Even when I was a student, I thought this. I am a scientist as he was. I studied in the ’70s. He studied in the ’60s. But our conclusions are the same. The answer is to not disturb.” Prior to Fukuoka, Schloegel was taken by the work of the eminent English scientist Dennis Noble, a pioneer of systems biology whose publication The Music of Life became a huge influence. Noble uses the analogy of life as many orchestras playing different scales, very small and very big. “Molecules, atoms, landscape, living beings as well as the vine – all are playing together and that is what we call life. We can listen to each scale of this living system, and you will find almost the same music, because it is totally coherent. Each scale is in harmony. It was very inspiring to me,” Schloegel explains. Like Fukuoka, Schloegel has a strong respect for spirituality as well as science and talks about how the human brain deciphers experiences differently. He uses music as an example, describing how listening to music creates an emotional reaction which the scientific part of your brain can’t explain. “Knowing you only have a small knowledge of this complexity, this complexity of nature, makes you humble. But spiritually you get pleasure from living with this complexity and not trying to control it. It’s just like a wave you are surfing on. This is the pleasure side.” As well as adopting a no-plough, no-till approach, unlike biodynamic farming, Schloegel does not sow seeds for cover crops, nor use any organic fertiliser, preparations or other inputs. He believes his vines’ roots not only root deeper, but are more resistant to disease and suffer less from stress. He also saves on the costs of such additions. So what does he do? He prunes the vines each year – very late in March/April just prior to the new buds forming – and he mows between the rows just prior to harvest. He does also use copper and sulphur, when necessary, to tackle disease but believes he can phase this out. Beyond that, the vineyard is left to its own devices. It is hard to keep up with Schloegel sometimes – his concepts are unconventional, but this holistic approach is highly considered. It is completely at odds with the commercial farming approaches and understandably has caused controversy. But he, along with a growing number of viticulturists around the world, is totally committed to the concept that permaculture is essential to the future long-term health of arable land. He believes he can not only produce an economically viable crop (up to 40hl/ha), but he can produce wines with greater complexity and terroir expression. He believes it takes between seven to 12 years of not disturbing the vineyards for them to find their balance. “At this point you are on the crest of the wave – it is very calm,” he says. But this is a long process and requires a lot of faith to commit to. Even Schloegel admits it gets worse before it gets better, as the vineyard adapts. “When you stop the herbicides, the mowing and the ploughing, you get the bad weeds. But these weeds prepare the soil for the next generation of plants,” he says. Poppies, lilies, thistles, wild orchids then start to appear and then fruit and vegetables and a huge variety of plant life and wild flowers begin to grow. His vineyards today have a huge variety of plant and wildlife species coexisting, with cherry, apricot, fig, almond trees and wild vegetables, flowers, fruits, and aromatic herbs all growing between the vines. What then happens seems incredible. Schloegel explains, once in equilibrium you see distinct plants continue to grow in the same place each year, depending on the terroir of that part of the vineyard. There is one part of his vineyard where 30 metres of wild strawberries appear every year, growing alongside the vines. In other parts there are leeks, other parts a particular herb. Schloegel outlines that even within a single vineyard, very little is exactly the same. The composition, altitude, slope, geological make-up are all different and, when left to adapt, one vineyard grows multitudes of plant species at different levels of concentration in different parts of the vineyard, depending on what adapts best to that particular spot. This is what Schloegel believes is real terroir in action: “A terroir is a full, complex living system – and a wine of this terroir is a response. In this totally free, rich, complex place. I know it is possible for natural systems to rebuild from themselves. But it cannot be fostered.” Fukuoka’s farm on the island of Shikoku in southern Japan was a rice and citrus fruit farm and, while he managed to produce commercial yields of both rice and fruits, the transference of his techniques to the vineyard is not quite as straightforward. The concepts are radical and while a few like Schloegel are convinced it’s possible – with his own yields varying from 10-40hl/ha, others remain sceptical. Schloegel’s Alsatian neighbour Olivier Humbrecht MW (of Domaine Zind-Humbrecht) does not believe a non-interventionist approach is a good idea – nor that it is necessary for making wine a sustainable crop for the future. While Humbrecht accepts there may be many good ideas in terms of regenerative methods that heighten biodiversity and increase the health of the soils, he is sceptical of its long-term future. Humbrecht’s fundamental criticism is that Schloegel’s approach is not as undisturbed as he claims.“A vine is a cultivated plant,” says Humbrecht. “You are cultivating something, disrupting something natural and making it not natural. It is not natural to plant vines one metre apart on a slope, in poor rocky soil, in a place where it doesn’t rain much. It’s not natural to force it to produce grapes every year. So you have to compensate this with something.” For him, permanent cover leads to soil compaction – with the shallow roots of these plants and the topsoil damaged when working in the vineyard – which has graver long-term effects than tilling or ploughing. These stresses on the vine, Humbrecht explains, are exactly why we have flavour in our wines. Each of these stresses, whether it be the nutrient stress from poor soils, the water stress from growing on a slope or well-drained soils, or nutrient stress from high density planting – these are all deliberate decisions made by vignerons who, over the last 2,000 years, have discovered the best places to cultivate and stress the plant in order to produce delicious fruit. This fruit is the vine’s attempt to escape, through tempting wildlife to eat it and disperse their seeds somewhere less inhospitable. “France would be a forest if untouched and I’m not sure you would not find one wild vine where we have the top vineyards today,” he says. Humbrecht remembers discovering the vines on his own Grand Cru vineyard Rangen de Thann. These vines had been abandoned since World War One. When he arrived 60 years later, most of them had disappeared. The vines that did survive and adapted were producing tiny, small clusters of grapes. Humbrecht believes non-intervention farming would have similar results. “If you don’t prune a vine for 10 years you will end of with tiny clusters, producing maybe 2-4hl/ha – a typical commercial yield in the region is closer to 80hl/ha. Humbrecht’s biggest concern centres around this approach’s commercial viability. And that is important if these methods are to be adopted more globally. If these vineyards’ crops are too small, the vineyard will fail and more likely be bought up by someone else who could return the vineyard to conventional, chemical farming. While there may be disagreements between Humbrecht’s biodynamic approach and Schloegel’s “savage” approach, the permaculture concept has led others to adapt their practices. Michel Chapoutier has been farming biodynamically for the last 30 years but has more recently adopted permaculture. “How I am managing my soil today is completely the opposite to how I managed them biodynamically 20 years ago,” he tells me. Chapoutier now believes the disturbance of the soil is more damaging than the removal of weeds and therefore has stopped ploughing his vineyards. For Humbrecht, light ploughing and resowing cover crops is a better solution. “There is no technique that is 100% good,” he explains. “You have to weigh up the options. What is better? Let the vine die from the competition of the plants growing in May, or disrupting the microorganisms in the soil by ploughing four inches into the soil (between May and June) – you have to choose. It is always a question of balance.” Another producer who has gone beyond organics and placed the development of biodiversity and regenerative practices at the heart of their operation is Gaja. The early success of Piedmont as a fine wine region in Italy saw areas such as Barbaresco and Barolo become dominated by vineyards. Forests were felled and biodiversity dropped. Gaja has since incorporated more trees, adopted permaculture methods in the vineyard and today produce their own organic fertiliser in their historic vineyards. The team has also recently purchased new land in Alta-Langhe where they are not just planting vines, but trees too, incorporating the trees and the vines together. “There is a growing sensibility towards the importance of biodiversity,” says Gaia Gaja, “therefore we are fine with sacrificing space suited for vineyards in favour of trees, we believe in the long run this decision will benefit the health of the vineyards.” Industrial farming is in ecological and financial crisis. More sustainable approaches have to be adopted if we are to survive the next generation, but, so far, those choices come at a cost. For many farmers struggling to make a living, the conventional, chemical farming approach has become the only way to financially survive, taking each year as it comes. These growers can ill afford to think much beyond that, despite the system’s long-term unsustainability. Many feel trapped and find more sustainable approaches economically unviable without better directed government subsidies that promote regenerative farming practices. Wine is hardly an essential food product, but it is the economic engine for entire communities that rely on it for subsistence. In certain wine regions where there is a reliance on water reserves and chemical inputs, it will have to adapt or die. Minimal intervention viticulture is no doubt a radical option, but truly regenerative viticultural approaches will be necessary in a future where food shortages become more widespread. Chapoutier and Zind-Humbrecht, even Schloegel, albeit blessed with great terroir, are paving the way, proving it is possible to produce wine at good volume, at all price points, with a regenerative approach. It is these pioneers that we must learn from, if we are to have a wine industry at all in 50 years‘ time. Browse the wines of Domaine Zind-Humbrecht or Michel Chapoutier or read more Editorial

Agriculture is in crisis. Wine producers are at the forefront of the challenges facing farmers around the world – but what can they do? We talk to Olivier Humbrecht MW, Bruno Schloegel, Michel Chapoutier and Gaia Gaja about rewilding, regenerative farming and the vine’s long-term viability

Olivier Humbrecht, Michel Chapoutier and more on rewilding, regenerative farming and the vine’s long-term viability in an agricultural crisis.

How viticulture can help the climate crisis

A return to the wild: beyond organics

Sono seduto di fronte a Rino Fontana, un collezionista di vini italiano che Antonio Galloni ha nominato Personalità del Vino dell’Anno nel 2023. Fontana ha un aspetto dimesso – come qualsiasi altro settantenne che potresti trovare, sigaretta in mano, mentre sorseggia un espresso in una piazza soleggiata. Gli occhiali da sole pendono da un cordino intorno al collo e, di tanto in tanto, fruga tra foglietti di carta che sembrano fungere da calendario e/o diario. Non so bene cosa mi aspettassi, ma forse qualcuno un po’ più, beh, sofisticato. 
 Fontana colleziona vini dagli anni ’80 ed è rinomato per la sua cantina, un vero tesoro di annate straordinarie dei migliori produttori piemontesi. Galloni lo ha persino soprannominato “Il Professore” per la sua profonda conoscenza del vino italiano – nonostante non abbia mai lavorato nel settore. Mentre Fontana scorre le foto sul telefono, ricordando cene recenti, snocciola nomi e annate che lascerebbero senza parole qualsiasi amante del vino. 
 È cresciuto nell’Oltrepò Pavese, dove il padre era scalpellino, ma comprava uva e faceva un po’ di vino per la famiglia. Fontana fu mandato a scuola a Valenza, una città nota per l’industria dell’oro – e iniziò a lavorare in una fabbrica orafa verso la fine dell’adolescenza. A 24 anni, lui e il suo migliore amico aprirono il proprio laboratorio di gioielleria. Fu il proprietario di un ristorante locale a Mortara a introdurlo ai veri piaceri del vino, e una bottiglia di Monfortino di Conterno lo fece innamorare perdutamente del Nebbiolo – l’annata 1958, per la precisione. Da quel primo assaggio, ha stappato oltre 150 bottiglie (sì, davvero) di Monfortino 1958. Fu proprio quel vino a spingere Fontana a iniziare a visitare i produttori – un’avventura di autoformazione. All’epoca, la gente non comprava vino e i produttori italiani erano lontani dall’essere di moda. Diventò amico di personaggi come Giuseppe Rinaldi, Bruno Giacosa e Gianfranco Soldera, assicurandosi rapidamente allocazioni importanti dei loro vini, quando pochi altri mostravano interesse. I produttori, a loro volta, sostenevano che avesse un dono – una capacità unica di comprendere i vini in botte e predirne l’evoluzione futura. 
 Oggi percorre circa 80.000 km all’anno visitando i produttori – ma la grande maggioranza di questi chilometri è in Piemonte, poiché Fontana beve – e colleziona – quasi esclusivamente Nebbiolo. Questa sola uva rappresenta circa il 95% del suo consumo, dice, con Barolo e/o Barbaresco nel bicchiere ogni giorno. Tiene sempre le ultime uscite in frigo – anche qualche semplice Langhe Nebbiolo – ma almeno due volte a settimana stappa qualcosa di speciale dagli anni ’60 o ’80 con amici o produttori amanti del vino. 
 Sebbene il Nebbiolo sia solo uno dei tanti vitigni proclamati “il re dei vini”, per Fontana regna davvero sovrano. Quando gli chiedo perché, stupito di come possa bere così tanto di un’unica varietà, alza le spalle: “Il Nebbiolo è Nebbiolo.” Quando lo incalzo, dice di amarlo per la sua capacità d’invecchiamento, la struttura e l’eleganza – qualcosa che ritiene non si possa trovare nel Pinot Nero. Ricorda una recente cena con Galloni al ristorante Il Centro di Priocca, dove condivisero una bottiglia di La Tâche 2004 di Domaine de la Romanée-Conti insieme a un Barolo Borgogno 1947 e a un Vigna Rionda 1989 di Giacosa. Entrambi i Barolo, racconta, crebbero durante la cena – mentre la La Tâche svaniva lentamente. Per lui, la Borgogna (anche nelle bottiglie più ricercate al mondo) non è all’altezza del Nebbiolo. È un’opinione controversa – ma Fontana non è certo un uomo privo di opinioni. Dismette i vini di Cappellano e Accomasso, mentre ha idee ben precise su come dovrebbe essere fatto il Nebbiolo, preferendo la vinificazione tradizionale con botti vecchie – non vuole sentire il legno nel vino. Sostiene che troppi giovani produttori vadano in Borgogna e cerchino di emularne lo stile nei propri vini, perdendo così la loro identità piemontese. I vini risultanti, a suo parere, sono troppo tecnici, troppo puliti. “Un grande vino non può essere perfetto,” dice – suggerendo che proprio le imperfezioni contribuiscono a far sentire il vino vivo. 
 Sebbene i produttori più affermati e famosi dominino la sua collezione, apprezza anche vini di nomi più giovani come Trediberri, Crissante e Cascina Baricchi. Oltre al Nebbiolo, si concede qualche etichetta di Sangiovese – Soldera, per esempio, è all’altezza, così come SanCarlo (un produttore che ritiene rivaleggi con il primo). Le Pergole Torte di Montevertine un tempo sarebbero state una scelta ideale, ma ora preferisce Le Trame di Le Boncie. Gli piacciono Valentini ed Emidio Pepe, e acquistava Gravner, ma ritiene che lo stile sia cambiato nel 2004, quindi smise. 
 Vendette la sua attività di gioielleria nel 2000 – dedicandosi interamente al vino – visitando produttori, costruendo la sua collezione e vendendo a clienti selezionati (tra cui FINE+RARE ha la fortuna di figurare). Oggi Fontana possiede circa 9.000 bottiglie nella sua collezione. Ci mostra un video della sua cantina – sorprendentemente, con molti vini conservati in posizione verticale. Tutto ciò che è post 1990 è tenuto coricato, ma i vini più vecchi sono in piedi – una pratica che, sostiene, è migliore una volta raggiunta una certa età, con il sughero e l’umidità della cantina più importanti per la loro conservazione. È una collezione straordinaria, con incredibili verticali di molti vini. Il suo accesso sembra impareggiabile – ricevendo allocazioni più grandi di molti importatori, grazie ai suoi legami storici. È l’unico individuo, per esempio, a ricevere un’allocazione del Cru Brunate di Rinaldi – un vino altrimenti riservato esclusivamente alla famiglia. Alcune delle sue bottiglie più preziose sono il Santo Stefano 1964 di Giacosa e le magnum di Monfortino 1970 (“straordinario” – dice), mentre nutre un affetto particolare per il giovane Soldera 2015. 
 Ora, a 73 anni, Fontana sembra affascinato dal vino tanto quanto quando assaggiò per la prima volta quel Monfortino 1958. Gli chiedo se ci sia un vino che desidera ancora disperatamente assaggiare, un unicorno che sta ancora cercando: la risposta è no. Ha potuto provare ogni annata dei produttori che ama. È una risposta rara per un appassionato di vino – ma “Il Professore” non è certo un collezionista come gli altri. 
 – Fotografia di Rino Fontana a Il Centro di Dan Deibel 
 Esplora una selezione delle migliori verticali dalla cantina di Fontana, tutte le offerte italiane o leggi altri Editoriali

Amico del fondatore e critico di Vinous, Antonio Galloni, e con una cantina che fa invidia a chiunque, Rino Fontana è il collezionista di vini più famoso d’Italia. Lo abbiamo incontrato per scoprire il suo percorso, la sua collezione e la sua ossessione per un vitigno.

Antonio Galloni’s Wine Personality of the Year 2023, Rino Fontana is Italy’s most famous wine collector – we met the man to talk about his cellar

Rino Fontana – the wine collector like no other

Rino Fontana: un collezionista come nessun altro

Making Champagne is different. More than any other wine, it’s a long-term game. The region’s cellar masters don’t see the fruits of their labour for years, even decades, depending on the wine; their work closer to that of a master distiller rather than most winemakers.  “It humbles you – you are not the superstar. The superstar is definitely the Champagne,” Elise Losfelt – who took over as Cellar Master at Champagne Charles Heidsieck earlier this year – tells me. She has just done her first blends for the prestigious House, with wines selected by her predecessor, Cyril Brun – and those blends won’t be tasted by the rest of the world for as long as eight years, when it comes to the vintage wine.   With three young children (aged three, four and six), Losfelt’s home life is very much about the here and now, but the world of Champagne gives her the chance to slow down; “Putting myself in a timeline – not just in today,” she explains. Losfelt has big shoes to fill, following in the footsteps of Brun, who arrived at Charles Heidsieck in 2015 and helped steer the House into a new, more prosperous era, including the re-introduction of the property’s Champagne Charlie cuvée. He has since caused a stir in the world of sparkling wine by being the first Champenois ex-pat to move to Italy, taking on a new role at Ferrari (one of the top names in Trento DOC).  Similarly to Brun (who came from Veuve Clicquot), Losfelt arrives from one of the Moët Hennessy properties, Moët & Chandon. Also like Brun, wine runs in her blood – she’s the seventh generation to make wine, with her mother at the helm of the family estate, Ch. de l’Engarran in the Languedoc.   Losfelt spent over a decade at Moët & Chandon, a business which became “a place that feels like family”; but when the phone rang and it was a job offer from Charles Heidsieck… “I had to grab it,” she tells me. Not only has she always loved the Charles Heidsieck Champagnes, but it was over a glass of 1995 Blanc des Millénaires that she and her husband first connected, back in 2014.  For the majority of her time at Moët & Chandon she was the Head of Vinfication, preparing the wines for the cellar master, responsible for much of the winemaking – almost everything but the final blend. It was the scientific side of winemaking that had attracted her originally, but the lure of this unexplored artistic side of the job, combined with her emotional tie to the wines, made the opportunity impossible to resist. It was, as she told me, time to leave her “first family” to take on a new challenge.   For her, Charles Heidsieck stands apart from others for its endless complexity. “It’s a Champagne that doesn’t offer you just one facet, doesn’t offer you just one aroma, or just one characteristic of aromas… it’s everything together,” she explains. While the brief for something like Moët Impérial is to craft a consistent and fresh, vibrant wine, her brief at Charles Heidsieck is for “profoundness”. Even at the non-vintage level, she is looking for wine that would meet many Houses’ vintage standards; the aim is to consistently exceed quality expectations.  Talking about trends in the region today, I enquired whether there were any plans for Charles Heidsieck to follow in the footsteps of Louis Roederer, Krug or Jacquesson – creating numbered non-vintage releases, highlighting the base vintage and variation between years, rather than the consistency historically seen as desirable. There are no plans for imminent changes, but the House has – since the 1990s, under Chef de Cave Daniel Thibaut – had the “mis en cave” date, the year in which the bottle was laid down in the cellar for secondary fermentation to get underway. As for adding tirage or disgorgement dates: “This is a question for me in five years,” Losfelt says, with an unrushed shrug.  For this new Chef de Cave, it is only the beginning – with much to learn, test and try before any changes are made. Losfelt’s job is a little like the now-famous Patek Philippe advert, she tells me; she’s just keeping the seat warm for the next generation, inheriting the work of her predecessors and creating the tools for those that will follow her. As she tells me, “Every step of the way, one choice makes a difference.”  As we await the first releases bearing her fingerprint, there’s no doubt she’ll be working tirelessly to preserve and further Charles Heidsieck’s legacy. “Until it’s tasted, and it's good, I will not rest,” she says, a clear sense of responsibility for the weight on her shoulders. We, like Losfelt, will just have to wait and see.   Explore all current Charles Heidsieck listings, or read more about Champagne

Earlier this year, Champagne Charles Heidsieck announced that Elise Losfelt would be replacing Cyril Brun as Chef de Cave. We sat down with her to talk about her journey and why patience is most certainly a virtue when it comes to crafting fine Champagne

We spoke to Elise Losfelt, the newly crowned Chef de Cave for Champagne Charles Heidsieck, about why patience is a virtue when it comes to making Champagne

Talking to Charles Heidsieck’s Elise Losfelt

A waiting game: Champagne Charles Heidsieck

Bruno Rocca

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Bruno Rocca

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